Continua la forte mobilitazione dei lavoratori e lavoratrici del settore tessile in Bangladesh, dove ieri é stata uccisa un’altra operaia negli scontri con la polizia che animano le piazze bangladesi da ormai quasi due settimane. La maggior parte dei sindacati del settore hanno rifiutato l’aumento del 56% del salario minimo proposto martedì dalla delegazione governativa, perseverando nella grossa mobilitazione che cerca di ottenere uno stipendio minimo di 208 dollari invece dei 75 dollari (8,300 taka) attuali. Il Bangladesh é il secondo paese produttore di indumenti al mondo dopo la Cina, con quasi 3.500 fabbriche che riforniscono molti dei marchi globali più conosciuti al mondo, come Levi’s, Zara, H&M, Gap, Walmart. Sono circa quattro milioni i lavoratori impiegati nel settore, la maggior parte dei quali donne.
Kalpona Akter, presidente della Federazione dei lavoratori dell’abbigliamento e dell’industria del Bangladesh, si è detta «estremamente frustrata» per quello che ha definito un misero aumento. Akter ha detto che i lavoratori sono in difficoltà perché i prezzi dei beni di uso quotidiano stanno aumentando e ha definito la proposta come inaccettabile. L’inflazione nel Paese é al 9,5% e i dipendenti affermano che nemmeno con gli straordinari arrivano a fine mese. L’impennata dei prezzi del carburante e dell’energia elettrica ha infatti fatto lievitare il costo della vita per gli abitanti di questa nazione in via di sviluppo dell’Asia meridionale. Se i bassi salari hanno spinto le multinazionali a investire nel Paese, oggi i lavoratori chiedono più diritti e non intendono più essere la riserva di manodopera a basso costo di un settore industriale che macina profitti da capogiro.
Per ora le istituzioni bengalesi hanno svolto il ruolo di cani da guardia degli interessi delle grandi industrie, scatenando una violenta repressione contro i lavoratori in sciopero. Sono già tre i morti negli scontri, l’ultima delle quali una donna di 23 anni uccisa con un proiettile dalla polizia; decine e decine i feriti e gli arresti. Alcuni sindacalisti inoltre accusano il governo e la polizia di aver arrestato e intimidito gli organizzatori: «la polizia ha arrestato Mohammad Jewel Miya, uno degli organizzatori dei nostri sindacati. È stato arrestato anche un leader di base», ha dichiarato Rashedul Alam Raju, segretario generale della Bangladesh Independent Garment Workers Federation. Un altro leader sindacale, parlando a condizione di anonimato, ha detto che i sindacati sono stati minacciati dalla polizia di interrompere le proteste e accettare l’offerta salariale. «Almeno sei sindacalisti di base sono stati arrestati», ha dichiarato. La polizia non ha rilasciato alcun commento immediato sugli arresti. Sono stati dispiegati anche una cinquantina di plotoni dei temuti paramilitari della Guardia di frontiera nelle principali aree produttive (Ashulia, Mirpur, Savar e altre) che circondano la capitale Dacca, nel tentativo di reprimere i disordini e difendere gli interessi delle aziende.
Scontri, manifestazioni, blocchi sono le conseguenze della difficile situazione che sono costretti a vivere gli operai bengalesi orami da molto tempo. Orari di lavoro lunghi, paghe bassissime, un guadagno enorme per le numerose aziende straniere che da tempo hanno deciso di delocalizzare la produzione nel Paese per aumentare i propri margini di guadagno. Ieri, 9 novembre, nuove violenze sono scoppiate nella città industriale di Gazipur, fuori dalla capitale Dhaka, dove la polizia ha sparato lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere gli oltre 1000 lavoratori che bloccavano l’autostrada. Secondo la polizia, inoltre, diverse migliaia di lavoratori hanno lasciato anche le fabbriche di Ashulia, un sobborgo settentrionale di Dacca. Sono oltre 600 le fabbriche cha sono state costrette a chiudere i battenti per lo sciopero. Quattro di esse sono state bruciate nelle proteste, altre decine sono state saccheggiate. Almeno un bus é stato incendiato e numerose vie di comunicazione sono state bloccate durante le manifestazioni.
Le proteste si sono accese dopo che la Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association – associazione industriale che rappresenta gli interessi delle aziende – ha proposto di aumentare da dicembre il salario minimo mensile del 25%, portandolo a 113 dollari. Il Comitato per il salario minimo, nominato dal governo, riunisce rappresentanti dei produttori, dei sindacati ed altri esperti. Normalmente si riunisce ogni 5 anni, e l’ultimo aumento aveva fatto passare da 5mila a 8mila taka lo stipendio mensile.
L’industria tessile rappresenta quasi il 16%del PIL del Bangladesh, e genera più di 40 miliardi di dollari all’anno di esportazioni, quasi tutti per le aziende dei grandi marchi occidentali. Ora che i lavoratori chiedono 23mila taka mensili- nemmeno il minimo calcolato per vivere dignitosamente oggi in Bangladesh – anche queste grandi aziende sono chiamate a rispondere. La situazione rischia di degenerare nel paese che sta vivendo anche una violenta repressione politica, dove pochi giorni fa sono state arrestate circa 8mila persone dell’opposizione in vista delle elezioni previste a gennaio.
[di Monica Cillerai]
Speriamo abbia fine l’industria del fast fashion di alta o bassa gamma. Auspico un ritorno alla manifattura italiana. Pochi indumenti ma buoni da indossare a lungo.
Leggendo questo articolo si ha l’impressione che siano solo i marchi low-cost a sfruttare la manodopera a bassissimo costo, ma non è così. Anche i marchi di fascia alta, del lusso, del finto “Made in Italy” producono capi a basso costo in paesi senza etica del lavoro per poi rivenderli a prezzi assurdi!