La tassa sugli extra-profitti varata dal governo Meloni si sta risolvendo in un palese flop, in quanto tutti i principali gruppi bancari del Paese non stanno versando all’erario nemmeno un euro. Grazie ad un emendamento presentato dall’esecutivo lo scorso settembre – dopo appena un mese dall’approvazione della legge – le banche possono non pagare la tassa, purché destinino un importo di 2,5 volte superiore al consolidamento del proprio patrimonio. È quello che stanno facendo i principali istituti di credito, tra cui Unicredit, Intesa San Paolo, Bpm, Bper, Credem, Mediobanca, a cui si è aggiunta ora Mediolanum, la banca controllata per il 30% dalla famiglia Berlusconi. Non a caso, Forza Italia è stato il partito che più degli altri ha avversato il provvedimento. Nemmeno Monte dei Paschi di Siena (MPS), controllata al 64% dal Ministero dell’Economia, ha aderito alla misura, così come Mediocredito-Banca del Mezzogiorno che è partecipato al 100% da Invitalia, a sua volta interamente controllata dal Tesoro.
Grazie soprattutto all’aumento dei margini d’interesse, quasi raddoppiati in seguito ai dieci rialzi dei tassi decisi dalla BCE, nei primi nove mesi del 2023 i cinque gruppi bancari più grandi del Paese hanno già registrato profitti per 15,7 miliardi, quanto in tutto il 2019 e più del 2018 (15,1 miliardi). Il sindacato Fabi (Federazione autonoma bancari italiani) stima per l’intero 2023 utili operativi a 43,4 miliardi per i soli cinque gruppi, mentre la società di consulenza internazionale Kearney ha calcolato che i profitti dell’intero settore bancario realizzati tra giugno e settembre superano già i 16,5 miliardi, l’80% in più rispetto al terzo trimestre del 2022, con Unicredit e Intesa Sanpaolo sul podio. Profitti ottenuti a scapito dei cittadini, che pagano rate dei mutui più alte, e delle imprese, che hanno un difficile accesso al credito, e che il governo Meloni aveva inizialmente deciso di tassare destinando i ricavi al finanziamento della manovra di bilancio: un’iniziativa da molti ritenuta una mera “vetrina politica”, volta a dimostrare la volontà del governo di tassare quelli che la stessa Giorgia Meloni aveva definito «profitti ingiusti». Tuttavia, nessun istituto ha scelto di versare una quota degli utili, mettendo in luce il fallimento dell’emendamento apportato alla legge del 7 agosto e preparato dal MEF: dagli 828 milioni di Intesa Sanpaolo ai 440 di Unicredit, i principali istituti di credito hanno deciso di non pagare, rafforzando invece il patrimonio. Il tutto, nonostante i patrimoni bancari siano ai massimi di sempre, cresciuti attorno al 15% degli attivi di rischio. Gli utili non ridistribuiti riducono, inoltre, la tassazione prospettica per il 2023.
A spingere per l’approvazione dell’emendamento alla legge – votato il 23 settembre – fu soprattutto un coordinamento tra la Banca d’Italia, il Tesoro e la BCE: in particolare quest’ultima aveva inviato al Tesoro un parere critico sull’imposta, sottolineando soprattutto tre aspetti potenzialmente negativi: il timore di un peggioramento del patrimonio bancario e dell’economia, in una fase di riduzione dei crediti dovuta al rialzo dei tassi; l’inclusione nel computo della tassa degli interessi da titoli di Stato, di cui le banche sono prime detentrici dopo la Bce stessa per un valore di circa 400 miliardi, e che poteva disincentivare il loro sostegno a Btp e simili; le preoccupazioni per MPS che, in una fase di rilancio, rischiava di pagare più cara di altri la tassa, mettendo a rischio la sua riprivatizzazione concordata con l’UE per l’anno prossimo. Secondo alcune ricostruzioni, l’interlocuzione tra Tesoro, Palazzo Koch e Eurotower è stata promossa e agevolata dalla squadra di Fabio Panetta, membro uscente del direttivo Bce e governatore di Bankitalia dal primo novembre 2023, gradito alla premier Meloni.
Grazie all’intervento dei principali vertici del settore bancario europeo e italiano, dunque, gli istituti di credito hanno potuto non pagare la tassa, raggiungendo peraltro utili record. Il governo italiano si è di fatto piegato alle raccomandazioni di organismi sovranazionali come la BCE, anche a causa della minaccia del differenziale tra Bund e BTP che a settembre si attestava a 200 punti base: il risultato è stato un vantaggio ulteriore per le banche, che hanno rafforzato il patrimonio, e un palese smacco per l’esecutivo, tanto che qualcuno ha sarcasticamente ribattezzato l’iniziativa come «operazione gettito zero».
[di Giorgia Audiello]