Le carceri italiane sono ormai da tempo piene di criticità. Condizioni igienico-sanitarie impossibili, suicidi, violenze e torture, esacerbate da un fattore da cui in pratica sono tutte influenzate: il sovraffollamento. Al 31 ottobre 2023 i detenuti rinchiusi nelle celle italiane erano 59.715, a fronte di una capienza regolamentare degli istituti di 51.275 – i posti sono calcolati sulla base del criterio di 9 metri quadri per singolo individuo.
Un problema che potrebbe essere risolto – o perlomeno affievolito – adottando diverse strategie, ma che il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit) ha deciso di voler sbrogliare a modo suo: mettendo sul piatto 166 milioni di euro da destinare a ventuno interventi di edilizia penitenziaria – tra cui la costruzione del nuovo carcere di San Vito al Tagliamento in Friuli-Venezia Giulia, e quello di Forlì, in Romagna – “riguardanti la sicurezza degli istituti e il miglioramento delle condizioni di vivibilità, nonché l’adeguamento funzionale delle strutture”.
Una soluzione, quella di costruire nuovi edifici e intervenire su quelli già esistenti, che secondo Antigone, in prima linea per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, non risolve affatto il problema del sovraffollamento. Tema che invece andrebbe affrontato con una riforma sostanziale del Codice penale, “che promuova una drastica riduzione delle fattispecie di reato e delle pene e il ricorso al carcere come extrema ratio”.
L’associazione sostiene infatti che il numero di persone dietro le sbarre potrebbe calare adottando alcuni cambiamenti, che limitino per esempio l’utilizzo della custodia cautelare – o detenzione preventiva. Tale misura dovrebbe essere utilizzata solo in casi eccezionali, quando ogni altra misura è valutata inadeguata. Invece la maggior parte dei detenuti finisce in cella per reati di microcriminalità, spesso dovuti alla loro condizione, di tossicodipendenti o di immigrati irregolari. Antigone spiega che “per loro sono stati introdotti inasprimenti di pena, divieto in molti casi di applicazione di circostanze attenuanti, aumento dei termini per la richiesta di permessi premio, irrigidimento per la concessione delle misure alternative e divieto di sospensione pena”.
Molte delle persone rinchiuse per questioni legate a sostanze stupefacenti potrebbero quindi tornare in libertà se il Governo pensasse ad una ridefinizione delle tabelle ministeriali relative ai quantitativi riferibili all’uso personale, se si applicasse la depenalizzazione totale dell’uso personale, includente la coltivazione, e se si adottasse una riduzione delle pene per lo spaccio di droghe leggere, “in vista dell’estensione di percorsi riabilitativi alternativi al carcere”. L’applicazione di misure alternative al carcere è infatti uno degli strumenti più forti, che oltre a indebolire il sovraffollamento “garantisce il recupero del detenuto e evita il rischio di recidiva”. Tenuto conto che la maggior parte dei detenuti ‘definitivi’ ha una pena o un residuo pena inferiore a tre anni, l’utilizzo di metodi alternativi alla detenzione consentirebbe di evitare il carcere e di liberare diverse migliaia di soggetti.
Tuttavia, per una maggior applicazione delle misure alternative, è necessario che in generale prima avvengano alcune migliorie del sistema: sarebbe essenziale una velocizzazione dei tempi – quelli di accesso alla pratica e quelli di esecuzione delle sentenze definitive per le persone già in custodia cautelare – il potenziamento del Gruppo di osservazione e trattamento con la collaborazione degli Enti locali, e l’aumento delle risorse per programmi di reinserimento di determinate tipologie di soggetti
Soluzioni che non trovano però d’accordo Carlo Nordio, il Ministro della Giustizia della Repubblica italiana, per cui l’ampliamento degli istituti penitenziaria è la via ‘ideale’ per il raggiungimento dei risultati sperati, ma che trova nella disponibilità economica il suo ostacolo più grande. Nordio ha per questo espresso più volte la volontà di ripiegare sul riadattamento delle caserme dismesse, destinate alla detenzione di persone condannate per reati a basso impatto sociale. Strutture «perfettamente compatibili con la sicurezza di un carcere, quindi con i muri di cinta, con le garitte e con gli altri spazi che sono all’interno di queste caserme: è la soluzione sulla quale stiamo lavorando, spero, con risultati abbastanza prossimi».
Risultati che la Corte europea dei diritti umani (CEDU) chiede all’Italia ormai dal 2009, quando nel luglio di quell’anno emise la prima condanna ai danni del nostro Paese per la violazione dell’art. 3, a causa del sovraffollamento carcerario. Sentenza a cui negli anni si sono appellati centinaia di detenuti, rivoltisi alla Corte di Strasburgo per denunciare le condizioni inumane e degradanti subite.
È la stessa Corte, tra l’altro, a suggerire all’Italia di ridurre il proprio numero di detenuti optando per il minimo ricorso alla carcerazione, prediligendo quindi dove possibile misure punitive non privative della libertà e riduzione della carcerazione preventiva. Ma, come dice un noto proverbio, “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”.
[di Gloria Ferrari]