domenica 22 Dicembre 2024

Il grande affare “green” dei crediti di carbonio sfratta gli indigeni in Kenya

In Kenya è in corso l’ennesima ondata di sfratti illegittimi a spese della popolazione indigena Ogiek. A denunciarlo tre importanti organizzazioni per i diritti umani – Survival International, Amnesty International e Minority Rights Group – nell’ambito della cerimonia di apertura del vertice sul clima di Dubai, COP28. Negli sfratti, paradossalmente – hanno precisato le ONG – stanno giocando un ruolo chiave i progetti di conservazione legati al mercato dei crediti di carbonio. Si stima che, solo nell’ultima ondata di sfratti che si susseguono da anni nella foresta di Mau, siano stati distrutti 167 edifici Ogiek, tra cui una scuola. “I popoli indigeni – hanno dichiarato in una nota congiunta le ONG – non possono essere sfrattati senza il loro Consenso libero, previo e informato e che gli sfratti operati senza tale consenso sono da ritenersi illegali”. Tra l’altro, le operazioni coatte violerebbero anche due storiche sentenze della Corte Africana finalizzate proprio a tutelare i diritti delle comunità indigene.

Tuttavia, che il sistema dei crediti di carbonio presenti più di una criticità non è cosa nuova. Ciononostante, il Kenya ha di recente firmato numerosi accordi che aprono la strada alla riforestazione di milioni di ettari di terra allo scopo di generare crediti che dovrebbero compensare le emissioni delle industrie inquinanti. Peccato però che questi progetti, oltre a riverlarsi spesso inefficaci, portano ad un aumento del furto di terre indigene, soprattutto, nel Sud del mondo. Tali iniziative sono infatti spesso basate sul concetto di “conservazione fortezza”, come lo definiscono le ONG, ovvero una strategia di tutela della natura che non prevede nessun tipo di contaminazione umana. Come se non fosse stato dimostrato quanto le popolazioni indigene, in realtà, siano un tocca sana per la biodiversità e, in generale, per la protezione della natura. Basti pensare che, secondo uno studio della FAO del 2022, i tassi di deforestazione sono più bassi nelle foreste protette gestite da comunità locali. Dal canto loro, invece, “i progetti di compensazione del carbonio sono particolarmente problematici perché spesso prendono di mira i popoli indigeni e i loro stili di vita invece che le vere cause della crisi climatica”, hanno scritto le ONG nella dichiarazione di denuncia.

Un altro progetto, focalizzato sulla parte settentrionale del Kenya, già ha messo a repentaglio la sopravvivenza di tre comunità, Samburu, Masai, Borana e Rendille. Stiamo parlando del Northern Kenya Grassland Carbon Project, un’iniziativa che si arrogava la potenzialità di migliorare la qualità della vita dei popoli che abitano le terre a nord della nazione e che vivono principalmente di pastorizia tradizionale. In pratica, gli indigeni devono sostituire la consueta pratica del pascolo tradizionale non pianificato con un pascolo a rotazione calendarizzato, che consentirebbe alla vegetazione dell’area di crescere in modo più prolifico. In questo modo si riuscirebbero a stoccare circa 1,5 milioni di tonnellate di carbonio in più all’anno, da rivendere in crediti alle società inquinanti. Tuttavia, la reale efficacia di queste strategie è stata già ampiamente messa in discussione. Una ricerca pubblicata lo scorso agosto ha ad esempio rivelato che i crediti di carbonio derivanti da progetti di riforestazione non compensano la maggior parte delle emissioni rilasciate dalle attività industriali. Un gruppo internazionale di scienziati, in particolare, ha esaminato 26 siti in cui sono stati realizzati i cosiddetti progetti di contrasto alla deforestazione REDD+ in tre diversi continenti. Il dubbio principale, è emerso, è su come gli sviluppatori calcolano l’impatto dei loro progetti, al punto che circa il 94% dei crediti di carbonio derivanti da questi non rappresenterebbe una reale mitigazione delle emissioni climalteranti.

REDD+ è l’abbreviazione di riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado forestale nei Paesi in via di sviluppo. L’idea è che la “monetizzazione” di foreste minacciate attraverso l’emissione di crediti di carbonio contribuisca a scongiurare un ulteriore aumento della temperatura globale. A sua volta, la vendita di questi crediti dovrebbe generare un flusso di reddito da investire nuovamente nella conservazione delle foreste che, secondo i sostenitori, è fondamentale per proteggere non solo il carbonio che la biomassa contiene, ma anche altri servizi ecosistemici, la biodiversità e le risorse vitali. Questi progetti rientrano nel più ampio contesto del mercato del carbonio, il sistema ideato per compensare le emissioni industriali attraverso lo scambio di quote di carbonio, i cosiddetti crediti. Per farla breve, chi emette più di quanto dovrebbe è costretto ad acquistare questi ultimi da aziende più virtuose, agricoltori o, per l’appunto, da progetti di mitigazione. Gli scienziati hanno però scoperto che i progetti REDD+ tendono a sovrastimare la quantità di deforestazione che si sarebbe verificata senza la loro presenza. Secondo i calcoli, queste stime avrebbero permesso ai promotori degli interventi di richiedere ben 89 milioni di crediti. Insomma, i progetti basati sui crediti di carbonio sono probabilmente inutili e sicuramente dannosi per le popolazioni indigene. La COP28 potrebbe quindi essere un’occasione per ripensare tale modello. O almeno è quanto sperano le organizzazioni umanitarie e ambientaliste.

[di Simone Valeri]

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