martedì 3 Dicembre 2024

Petrolio fuori dalla Moda: sarà mai possibile?

Si sta svolgendo in questi giorni a Dubai la 28esima Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), comunemente conosciuta come COP28. L’evento, che riunisce i rappresentanti di 200 paesi e che dovrebbe avere come scopo la coordinazione per l’azione globale sul clima, ha già fatto storcere il naso ancor prima del suo inizio a causa della presidenza dell’evento stesso. Il Dr. Sultan Al Jaber, infatti, oltre ad essere ingegnere, uomo d’affari e di politica, è anche CEO della Compagnia petrolifera nazionale di Abu Dhabi (ADNOC). Una scelta che fa presagire le inutili conclusioni in merito alla necessità di eliminare il petrolio come fonte energetica primaria al fine di ridurre le emissioni di carbonio. Quest’ultima, più che un’esigenza, è un’urgenza, che si riflette in numerosi campi e settori, tra cui anche quello della moda. Perché praticamente siamo vestiti di petrolio tutti i santi giorni.

La dipendenza della moda dal petrolio

[attivista iraniano americana Sophia Kianni.]
Nel video lanciato qualche giorno fa dalla fossil fuel fashion campaign, l’attivista iraniano americana Sophia Kianni viene lentamente sommersa da viscoso liquido nero; il suo abito fuxia lascia il posto ad una colata di (finto) petrolio, per sottolineare la dipendenza dell’industria della moda da fonti fossili. Fin da quando il poliestere è stato immesso sul mercato la sua ascesa è stata costante, fino a farlo divenire la fibra più prodotta ed utilizzata al mondo. Le ragioni sono svariate, ma la più prepotente è sicuramente legata al suo costo ridotto rispetto a tutte le altre fibre (dove ci sono meno costi, ci sono più margini di guadagno). L’industria della moda di oggi è diventata sinonimo di consumo eccessivo, di una crisi di rifiuti a valanga, inquinamento diffuso e sfruttamento dei lavoratori nelle catene di fornitura globali. Se a questo uniamo i nuovi modelli di business, come fast fashion e ultra fast fashion, con produzioni massicce dall’altra parte del mondo che fanno giornalmente chilometri per raggiungere le nostre case, possiamo capire in maniera ancora più evidente come e quanto l’attuale modello di produzione dell’industria della moda dipenda dall’estrazione di combustibili fossili, ostacolando la tanto nominata “transizione” verso un vera “economia circolare”. 

La produzione di fibre sintetiche per l’industria tessile rappresenta attualmente l’1,35% del consumo globale di petrolio (una cifra che supera il consumo annuo di petrolio dell’intera Spagna). Numerosi studi hanno inoltre dimostrato che l’industria del petrolio e del gas scommette sulla fiorente produzione di plastica (comprese fibre sintetiche) come principale flusso di entrate future. Lo scenario energetico di BP presuppone che la produzione di plastica rappresenterà il 95% della crescita futura della domanda di petrolio, mentre l’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) prevede che i prodotti petrolchimici andranno a costituire fino al 50% di crescita della domanda di petrolio entro il 2050 e al 4% nella crescita prevista della domanda di gas.

Simili proiezioni di mercato si avvistano anche nel settore tessile. Si stima che le fibre sintetiche cresceranno dal 69% al 73% della produzione totale di fibre a livello globale entro il 2030, di cui il poliestere rappresenterà l’85%

Se l’industria della moda continua di questo passo, in meno di 10 anni quasi tre quarti dei tessuti saranno prodotti da combustibili fossili (tra l’altro sono in ballo anche progetti per produrre poliestere dal carbone). Con conseguente aumento delle emissioni di CO2. In assenza di un intervento legislativo tempestivo e radicale e un notevole rallentamento, in tempi rapidi, saremo invasi da volumi insostenibili di rifiuti, microplastiche tossiche e avvolti in nubi di carbonio quasi impossibili da gestire.

Campagne e richieste di azione

Per questo le azioni, adesso, devono essere concrete ed immediate. Spezzare il legame tra combustibili fossili e moda è prioritario. Ecco perché movimenti come quello di Fashion Revolution e come la Fossil Fuel Fashion Campaign stanno chiedendo a gran voce ai leader politici, imprenditoriali e della società civile di raccogliere la sfida e di spingere per un’equa eliminazione graduale dei combustibili fossili dal sistema globale della moda

Una grande rivoluzione che deve iniziare con piccoli passi, dove le grandi case di moda si dovrebbero impegnare per accompagnare i propri fornitori verso una transizione energetica, nel mentre strutturano un piano dettagliato per fare a meno del petrolio in tutte le sue forme. Ma anche rendendo trasparenti i dati riguardanti le emissioni annuali e prove reali di una riduzione delle emissioni di gas serra. Affrontare il tema del rifuti, non solo con la responsabilità estesa del produttore (che ancora non è entrata in vigore), ma con l’onestà nel divulgare i volumi produttivi annuali, compresi quelli che riguardano i rifiuti pre e post produzione, sarebbe un un gesto che dimostrerebbe un’apertura al cambiamento e non l’ennesima campagna di greenwashing. Sul tavolo delle richieste non manca il tema di un salario dignitoso per i lavoratori del tessile. Tante le promesse che non sono state mantenute, per cui è ora di scoprire le carte e rendere noti gli stipendi, evidenziano quelli più bassi e quanti dipendenti della catena di fornitura ricevono un salario dignitoso (fino ad ora solo l’1% dei marchi è stato disposto a rendere noto questo dato).

I passi da fare sono tanti e, dove non arriva una presa di coscienza spontanea, forse è giusto che arrivino imposizioni dall’alto. Anche se, in questo mondo di giochi d’interesse, ci sarà sempre il “baro” di turno e chi, pur di vincere la propria partita, sarà disposto a fare di tutto. Come mettere un petroliere a capo di una conferenza sul clima.

[di Marina Savarese]

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