Condizione della verità è quella di essere nascosta. Ma non per sempre. Ogni verità che si esprima mediante un linguaggio contiene un non-detto perché parte del suo significato rimane inespressa, confinata in un retroscena, pronta a venire messa in luce da qualcun altro. Ogni verità attende un suo scopritore, un suo narratore.
La verità è deposta nell’inverno, come un seme che potrà germogliare. L’idea che le cose vadano preparate e non semplicemente trovate pronte viene espressa proprio dall’inverno, dalla sua speciale nozione del passare e del divenire, del colmare di senso ciò che ancora non possiamo conoscere. Perfino nei regali che ci scambiamo, insieme al senso del riconoscimento di ciò che c’è stato si esprime una promessa di continuità, di certezze, una speciale sintesi di varie fasi perché l’inverno è nello stesso tempo arrivo e ripartenza. L’inverno dunque porta con sé il dono del domani insieme alla sospensione del tempo. Per un passaggio che dovrà scorrere lento maturando, come un seme, i segni di una rinascita.
Sul piano archetipico l’allarme di un cambiamento climatico incide anche sul mito dell’avvicendarsi delle stagioni, sul riconoscimento di identità forti, sul rischio che si possa perdere l’alternanza dell’attendere e dello sbocciare, che non ci si debba più proteggere dal gelo in vista di una nuova fioritura, che i semi vengano ingannati da condizioni atmosferiche altalenanti.
In effetti ‘stagione’ e ‘stazione’ hanno lo stesso etimo in riferimento al concetto di ‘stare fermo’ ma anche a quello di ‘stadio’, tappa, dal significato di unità di misura della lunghezza, in greco. Sosta e durata dunque, cioè estensione nello spazio e nel tempo, la stagionalità suggerisce un’idea di tempo ricorsivo, di qualcosa che si ripresenta e che quindi si può e si deve attendere.
Nel mondo nordico il disgelo ha il carattere di una rivelazione come se le forme coperte dal ghiaccio e dalla neve ritrovassero la loro verità, ma una verità ciclica, quella del tempo che ritorna e, in primavera, ricomincia. “Il ghiaccio sembrava arricciarsi; quelle vive creste si stritolavano sotto i nostri piedi come le ossa della balena che appare nel racconto de Il cavallino alato; sotto le gelide squame palpitava la carne viva del fiume; un’acqua scura e fredda di tanto in tanto lambiva avida i piedi degli uomini”.
In questo racconto visionario di Maksim Gorkij, Il ghiaccio si muove (1893), sembra rivivere qualche racconto siberiano, la luna gelata, il lichene delle renne che tinge di blu la taigà, i piccoli uomini che vivono in tane scavate nella terra (i norvegesi troll) e anche tutte le storie russe del Gelo personificato che scricchiola insidioso contro il tronco dell’albero. Una scena che ricorda il martellare del picchio rosso sul larice, “che risuonava limpido nel mattino invernale come uno strumento a percussione”, narrato da Mario Rigoni Stern in Uomini, boschi e api (1980).
Per chi poi abbia letto e amato Il dottor Živago di Boris Pasternak (1957), indelebili rimangono i simboli della umile candela che pure riesce a dare il suo calore e quella notte nel gelo con gli ululati minacciosi dei lupi che rappresentano le forze oscure che stanno impadronendosi della Storia. Saranno i “tepidi acquazzoni con il loro odore di sudore e di terra a spazzar via gli ultimi resti della nera, squarciata corazza di ghiaccio”.
Quella primavera, tuttavia, che “inebriava il cielo” segnava la fine dell’illusione rivoluzionaria, l’avvento di un tempo irreversibile. Questa condizione negativa, questa rivelazione del corso sanguinario degli eventi, il dottor Živago volle poi esorcizzare nella poesia della stella natalizia dove “la notte di gelo assomigliava a una fiaba”, dove i cani, non i lupi, “esitavano, guardavano inquieti e, in paurosa attesa, si stringevano ai pastori. Per quella stessa via, per le stesse contrade, degli angeli andavano, mescolati alla folla”. Erano invisibili “ma a ogni passo lasciavano l’impronta d’un piede”.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]
Per me è sempre un grande piacere leggere i suoi scritti. Grazie
Caprettini non si smentisce; un suo scritto si riconosce ormai anche se non è firmato.
Parte bene, con temi essenziali e poi si perde o meglio, si rimira allo specchio parlando a sé stesso.
Che cosa c’entri in una pubblicazione come questa è un mistero.