Ancora proteste al CPR di Gradisca d’Isonzo, dove domenica 17 dicembre alcuni reclusi del Centro di permanenza per il rimpatrio friulano hanno dato fuoco a materassi, coperte ed effetti personali, lanciando oggetti contro il personale di sorveglianza. Alcuni dei trattenuti sono saliti sul tetto della struttura e un ragazzo tunisino ferito è stato portato al pronto soccorso. La protesta, volta a denunciare le condizioni degradanti di detenzione da parte dei migranti, è scattata dopo appena una settimana dall’ultima piccola rivolta, che aveva visto sabato 9 dicembre altri incendi scoppiare in diverse celle, accompagnati da un altro lancio di oggetti contro gli agenti in antisommossa che avevano subito fatto irruzione nella struttura.
“Nulla è cambiato” scrivono gli attivisti della rete Mai più lager – NO ai CPR sulla loro pagina Facebook nel riportare la nuova rivolta. “Il freddo è pungente ma i riscaldamenti non funzionano da settimane e settimane, le condizioni della struttura fatiscente sono vergognose. Immondizia, muffa dappertutto, latrine e docce senza acqua calda (e spesso senza neppure acqua fredda) otturate e maleodoranti, finestre rotte, coperte luride, materassi di gommapiuma logori e sporchi. Si aggiunge al tutto una struttura che come mostra la foto è fatta da gabbie indegne anche per animali dello zoo, con anche reti in cima allo spazio che dovrebbe essere per ‘l’aria’”. Come testimoniano numerosi reclusi intervistati dalla rete NoCPR Torino, le proteste scoppiano sì per le pesanti condizioni materiali a cui sono costretti, ma il principale motivo è la reclusione stessa. «Vogliamo la libertà! Vogliamo la lbertà, perché non abbiamo fatto niente» ricordava un recluso in seguito alle proteste nel CPR torinese.
Molti degli stranieri trattenuti a Gradisca erano appena arrivati in Italia. Sopravvissuti alla violenza di numerose frontiere, si sono ritrovati in quello che loro stessi definiscono un lager, una prigione per stranieri la cui sola colpa è di essere senza documenti. L’allungamento dei termini del trattenimento in queste strutture di detenzione amministrativa è passato da 3 a 18 mesi grazie al decreto legge del governo Meloni di settembre. Le proteste nascono anche dalla paura di molti giovani immigrati di vedersi detenere per un anno e mezzo in cella prima di essere deportati nel Paese dal quale erano fuggiti. Poche ore prima della rivolta, tre ragazzi tunisini erano riusciti ad evadere.
Il CPR di gradisca d’Isonzo detiene attualmente 87 persone invece delle 120 per cui è preposto. Una situazione che si ripete anche a livello nazionale, dove le continue proteste all’interno delle strutture hanno ridotto il numero dei posti da 1400 ad appena 600. Negli ultimi mesi sono numerose le inchieste che fanno luce sulle condizioni aberranti dei CPR e sulle quotidiane violenze a cui sono costretti i reclusi: cibo avariato, psicofarmaci, botte e nessuna cura per chi sta male. Pochi giorni fa, il CPR di via Corelli, a Milano, è stato messo sotto sequestro e l’azienda gestrice – Martinina srl – messa sotto accusa per fronde e turbativa d’asta, accusata di non aver fornito ai trattenuti molti dei servizi che avrebbe dovuto.
Il CPR friulano non è diverso: aperto come CIE (Centro di identificazione ed espulsione, antico nome dei CPR) è stato chiuso in seguito ad una rivolta nel 2014, dove dopo un lungo coma aveva perso la vita Majid el Khodra. Anche per quella gestione del CIE fu aperta un’inchiesta contro 42 persone – tra cui due prefetti. Tra le principali contestazioni si fa riferimento a turbativa d’asta per la gara di appalto conclusa con l’aggiudicazione della gestione del Centro di Gradisca al Consorzio Connecting People, e all’ipotesi di associazione a delinquere in riferimento ai presidenti, amministratori e dipendenti del Consorzio, con Marrosu e Zappalorto e Allegretto in presunto concorso esterno. Il CIE di Gradisca è stato riaperto come CPR con il Decreto Minniti nel dicembre del 2019; appena un mese dopo, muore Vakhtang, giovane georgiano ucciso, secondo i testimoni – ma non per il Tribunale – dalle botte ricevute dalle forze di polizia nella struttura. Altre 3 morti si sono susseguite da allora. Le proteste si susseguono dai primi mesi di apertura, con scioperi della fame, battiture, autolesionismo, incendi e rivolte contro i sorveglianti che esplodono ogni volta che i reclusi non reggono più le condizioni di reclusione o per il rischio di deportazioni immediate.
La cooperativa che ha in gestione il CPR si chiama Ekene; l’impresa nasce nel 2017 come diretta emanazione della cooperativa Edeco, già Ecofficina, nota come “coop pigliatutto” per aver controllato buon parte dell’accoglienza veneta dal 2011. A gestirla è Simone Borile, imprenditore padovano che proviene dal business dei rifiuti. Dalla gestione dell’immondizia la nascente cooperativa entra con successo nel business dell’accoglienza dei migranti e il suo bilancio passa dai 114 mila euro del 2011 ai quasi 10 milioni del 2015. Sebbene non compaia mai nella visura camerale, Borile viene considerato dagli inquirenti di Venezia “amministratore di fatto” delle cooperative che – nonostante continuino a cambiare di nome e di referente – sono sempre le stesse ad aggiudicarsi gli appalti del mondo dell’accoglienza e della reclusione. Nel 2016, Ecofficina-Edeco si aggiudica due centri di accoglienza, a Cona e Bagnoli. Per la gestione dei due hub, sono in corso due processi paralleli a Padova e Venezia, dove sono indagati alcuni funzionari delle due prefetture e i vertici della cooperativa, tra cui Borile. Le accuse, a vario titolo, sono di frode nell’esecuzione del contratto, inadempimento e frode degli obblighi contrattuali, rivelazioni di segreto d’ufficio. Al centro delle inchieste anche i maltrattamenti per la scarsa qualità del cibo distribuito agli ospiti dei centri gestiti dalla cooperativa, gli abusi e i servizi mai attivati.
Nonostante le indagini in corso nei confronti dei suoi vertici, Ecofficina prima, ed Edeco poi, hanno continuato e continuano ad aggiudicarsi ancora oggi con le loro diramazioni (Tucso, Tuendelee, Ekene) gare di appalto per l’accoglienza di migranti. Muore Edeco e dalle sue ceneri nasce Ekene: dal mondo dell’accoglienza si passa al business della detenzione amministrativa, con l’aggiudicazione degli appalti di gestione dei CPR di Gradica d’Isonzo in Friuli-Venezia Giualia e di Macomer, in Sardegna. Vince la gara di appalto per Gradisca nel dicembre 2019 come Edeco, per scorrimento della graduatoria, considerato che le prime quattro ditte partecipanti erano state escluse per avere presentato un’offerta anormalmente bassa. Nonostante il record di morti e di inchieste a carico della cooperativa e delle sue diramazioni, a gennaio 2020 la società si è aggiudicata anche il centro di detenzione di Macomer e, nell’ottobre 2022, la cooperativa veneta ha vinto la gara per la gestione del CPR di Caltanissetta. Dopo sette mesi la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici.
Il business della detenzione amministrativa e la violenza strutturale con cui viene attuata è sempre più evidente, eppure il governo sembra determinato ad ampliare la rete di CPR. Come sola risposta alle continue proteste, il Consiglio dei ministri ha approvato a novembre il pachetto-sicurezza per reprimere ogni forma di dissenso nelle carceri e nei Centri di detenzione amministrativa con anni di prigione. Un nuovo reato infatti punisce chi organizza o partecipa a una rivolta “con atti di violenza”: la pena per chi si ribella nei Centri di permanenza per il rimpatrio è tra i due e i sei anni.
[di Monica Cillerai]