Queste del titolo non sono parole generiche di un qualche oratore dei nostri giorni ma vennero espresse da Giuseppe Mazzini nell’aprile 1860 tra le prime pagine del suo libro Dei doveri dell’uomo, richiamando la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata solennemente dalla Assemblea costituente del Regno di Francia il 24 agosto 1789, prodotta dunque al tempo della Rivoluzione francese e antesignana della moderna Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Quest’ultima fu pubblicata esattamente settantacinque anni orsono, il 10 dicembre 1948.
Il 1948, in Italia, si era aperto con l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica, frutto del lavoro di una commissione che raccoglieva varie ispirazioni politiche e ideologiche del tempo, con la presenza anche degli eredi dell’insegnamento di Mazzini. Basterebbero gli articoli della Costituzione dedicati ai rapporti civili (art. 13-28), fondati sull’idea di libertà, per dimostrarlo.
Certe parole che risuonano solenni nella storia mantengono una speciale attualità benché talora vadano a sprofondare nella retorica perché l’insegnamento, la tradizione, l’ufficialità del potere le riduce a luoghi comuni, a echi di cerimonie. A rileggerle con attenzione ci sono affermazioni invece che riservano sorprese. Ad esempio ci potremmo stupire che Mazzini spiegasse – nel 1860! – che «le comunicazioni hanno acquistato dappertutto sicurezza e rapidità». E ancora ecco una questione quasi profetica, oggi immutata, a indicare che certa politica non cambia mai, in quanto aspira unicamente alla sopravvivenza. Affermava allora Mazzini: «Perché il consumo dei prodotti, invece di ripartirsi equamente fra tutti i membri delle società europee, s’è concentrato nelle mani di pochi uomini appartenenti a una nuova aristocrazia?». Segue una forte critica alla società dei diritti, perché questi diritti, proclamati a seguito delle rivoluzioni francese e americana, secondo Mazzini, sono del tutto inefficaci per chi non ha mezzi per esercitarli e si trova costretto all’obbedienza quando i propri diritti si trovano in urto con i diritti di chi è più forte. Di qui la necessità, secondo lui, di passare alla pratica dei doveri, cioè a un sentimento pubblico dell’obbligo morale, perché la predicazione dei diritti di per sé non porta da nessuna parte. Questo richiamo etico ai doveri, ai compiti, suona senz’altro anacronistico ai giorni nostri, impegnati come siamo a mettere in primo piano diritti sempre nuovi, su orizzonti inesplorati, col risultato di trascurare la soddisfazione di necessità basilari. Ancora per troppi si tratta di vivere, non di progredire, concludeva Mazzini in quest’opera che vuole sottrarre l’idea di diritto all’astrattezza dei principi.
La enunciazione di diritti, qualunque essa sia, è comunque in generale fonte di condivisione, di riflessioni critiche ma anche di stupore, di visioni utopistiche ma anche di rabbia. Ho avuto la fortuna di procurarmi anni fa un volumetto èdito in Francia dove gli articoli della Dichiarazione di cui ricordiamo l’anniversario – adottata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite (ONU) – vengono riportati, in ordine, nelle lingue francese, araba, spagnola, cinese, inglese, russa.
Il colpo d’occhio è splendido ma inquietante, le illustrazioni simboliche di Jean-Michel Folon contenute nella pubblicazione sintetizzano un allarme: sì, perché è impossibile illustrare i diritti, si possono soltanto evocare con disegni ed immagini le situazioni negative, contraddittorie, estreme, dense di minacce a cui sono sottoposti gli esseri umani quando i loro diritti non vengono né riconosciuti, né rispettati. Più astratti sono i diritti in sé, molto più sfumate le condizioni favorevoli, gli ideali finiscono per essere difficili da raffigurare. Ma non c’è nulla tuttavia di impersonale, di generico. Nessuno trascuri il fatto che tali diritti sono altri uomini, altre donne che li devono rilevare e difendere, e che dunque i diritti universali sono tali perché c’è una comunità mondiale che vi si riconosce.
Ma quale comunità concretamente? Le cose al riguardo non sono per niente semplici perché le varie culture del nostro pianeta, prese nelle loro vesti originarie, precedenti all’epoca della comunicazione e all’idea di villaggio globale, presentano una gamma vasta di differenze sul piano del riconoscimento dell’identità individuale e della soggettività del diritto, derivanti dal piano dei contesti organizzativi, la famiglia, il clan, la tribù ecc. in cui trova spazio la singolarità di ognuno.
«L’emergere, ad esempio, dell’idea di cittadino – sottolinea Colin Morris nel suo volume La scoperta dell’individuo (trad.it. Liguori 1985) -, inteso come possessore di suoi propri diritti ed uguale agli altri di fronte alla legge» è un tratto distintivo che si fonda su quella nuova idea di individuo come supremo valore affermatasi nella cultura europea già nei secoli precedenti l’Umanesimo e il Rinascimento. Da esso scaturisce sia l’idea che ogni essere è diverso da tutti gli altri, sia che ognuno non può non provare e alimentare un senso di relazione e anche di appartenenza.
Non è difficile quindi rendersi conto che i diritti di cui parliamo non si possono riconoscere e difendere soltanto sul piano dei singoli soggetti ma che i diritti inalienabili sono anche diritti transindividuali, di gruppo, intersoggettivi, collettivi, comunitari.
Mi pare dunque necessario approfondire la mappa delle garanzie e delle aspettative a livello multipersonale perché i nostri sono tempi in cui è sempre necessario sottrarsi al conformismo, alle azioni generalizzate di controllo, alla trasformazione di ciascuno in produttore-consumatore ecc. ecc.
Quali sono allora i nuovi diritti che ci consentiranno di evitare di essere vittime felici, di far permanere il nobile classico obiettivo per cui il vivente in generale, non soltanto l’essere umano, dev’essere considerato non come un mezzo ma come un fine? Non ultimo, ad esempio, il diritto all’interiorità, a quella acuta consapevolezza di sé e del proprio sé in rapporto agli altri – nota Colin Morris – che è stata un tratto distintivo della coscienza dell’uomo occidentale.
[di Gian Paolo Caprettini]
Con il Concordato in Costituzione abbiamo rinunciato a una parte di libertà e benessere. Prima del fascismo non c’era e Mazzini conosceva un’altra Italia.
È vero