domenica 22 Dicembre 2024

L’Iraq ha chiesto agli USA di ritirare le proprie truppe

Ieri il Primo Ministro iracheno Mohammed Shia al-Sudani ha dichiarato di volere ordinare il ritiro delle truppe USA dal proprio territorio, sostenendo che la loro presenza contribuisce a destabilizzare gli equilibri del Medio Oriente, già precari a causa del conflitto in corso a Gaza. Nel suo annuncio, non ancora corredato da alcuna richiesta ufficiale, al-Sudani non ha specificato entro quando dovrebbe attuarsi il rimpatrio dei militari statunitensi, limitandosi a chiamare tempi rapidi per l’esecuzione dei rientri. Il rischio, secondo il Premier, è quello che dopo le continue minacce di allargamento del conflitto lanciate da parte di Israele, l’Iraq diventi nuovamente palcoscenico di guerra: l’unico modo per frenare una possibile escalation, a detta del Premier iracheno, è quello di interrompere il conflitto a Gaza; in mancanza di questa condizione, l’ipotesi dell’allargamento costituirebbe una minaccia sempre più concreta, avvalorata tra l’altro dai numerosi attacchi che gli USA hanno lanciato negli ultimi giorni contro le milizie irachene filo-iraniane, a cui queste ultime non hanno tardato a rispondere. Secondo vari analisti, dietro la richiesta di al-Sudani si troverebbero proprio questi gruppi filo-iraniani, che avrebbero esercitato pressione sul Premier in seguito agli scontri verificatisi in Iraq.

La richiesta di al-Sudani arriva in un momento teso per l’Iraq, che negli ultimi giorni è stato teatro di numerosi scontri e attacchi tra le milizie filo-iraniane e le forze statunitensi stanziate sul posto. Già il 5 gennaio il Premier iracheno aveva accennato a un eventuale allontanamento delle truppe statunitensi da Baghdad, discusso in seguito a un duro attacco USA contro le Forze di Mobilitazione Popolare (FMP), un gruppo di milizie sciite filo-iraniane attivo in Iraq, nel quale è stato ucciso il vicecomandante Mushtaq Talib al-Saidi. In occasione di tale offensiva, il generale Pat Ryder, segretario del servizio stampa del Pentagono, aveva detto di non avere ancora ricevuto alcuna richiesta di rimpatrio delle truppe, e che la coalizione con l’Iraq avrebbe continuato a essere operativa mantenendo fissi i suoi obiettivi. Con la richiesta di ieri, al-Sudani parla di uno scioglimento dell’alleanza perché ormai il Paese è capace di difendersi da solo.

Le truppe statunitensi sono stanziate su suolo iracheno dal 2014, anno in cui il governo al-Maliki chiese alla Casa Bianca, allora guidata da Obama, di intervenire in aiuto contro l’offensiva nord-irachena portata avanti dall’ISIS. Da quel momento gli USA hanno schierato i propri soldati in Iraq sotto un’alleanza internazionale volta a debellare la minaccia dello Stato Islamico, stanziandovi circa 2500 truppe. Questa non è la prima vola che l’esercito americano occupa il suolo iracheno: dal 2003 al 2011, infatti, in occasione della seconda guerra del Golfo, gli USA invasero l’Iraq muovendo guerra contro il regime di Saddam Hussein. Dopo la caduta di Saddam, gli USA rimasero sul suolo di Baghdad per aiutare la ricostruzione del Paese, ma l’Iraq, invece che avvicinarsi a Washington, riallacciò i rapporti con il vicino Iran, precedentemente incrinatisi nel 1980 quando Saddam invase il Paese per paura di una espansione dell’ideologia di Khomeini. Da quel momento i due Paesi sono tornati in ottimi rapporti e adesso l’Iraq è il primo partner commerciale di Teheran.

Il ritorno dell’esercito statunitense sul territorio iracheno ha visto impegnati in maniera diretta gli alleati internazionali fino alla sconfitta militare dell’ISIS del 2017. Le truppe americane, tuttavia, rimasero attive nel luogo per distruggere le ultime cellule del gruppo militare jihadista, e sono tuttora operative in coordinazione con l’esercito iracheno per portare avanti tale obiettivo. L’Iraq iniziò a mettere sul tavolo la partenza delle truppe statunitensi già nel 2020, quando gli USA uccisero il generale iraniano Qasem Soleimaini, forse il più grande erede di Khomeini, eliminato in un raid mirato presso l’aeroporto di Baghdad. Nonostante le proteste e le pressioni della fazione filo-iraniana, l’ipotesi si dissolse nel nulla, ma riemerse anche l’anno successivo, quando gli USA dichiararono terminata la propria missione in Iraq; anche questa volta, tuttavia, si risolse in un nulla di fatto.

Con lo scoppio della guerra a Gaza, la questione dell’allontanamento delle truppe statunitensi è tornata al centro dell’attenzione. Il premier al-Sudani, appoggiato dal Quadro di coordinamento sciita, gruppo che riunisce i partiti iracheni filo-iraniani, è infatti particolarmente vicino a Teheran, tanto che si pensa che la richiesta di ritiro dell’esercito provenga proprio da lì. L’Iran, effettivamente, avrebbe solo da guadagnare da un eventuale allontanamento degli USA da Baghdad, perché farebbe perdere a Washington la possibilità di arginare in maniera diretta la propria influenza sull’area, e guadagnerebbe maggiore controllo sul territorio mediorientale. A tal proposito c’è chi sostiene che le pressioni possano provenire anche dai gruppi del Fronte di Mobilitazione Popolare, i quali, a causa delle numerose perdite per mano statunitense, avrebbero spinto al-Sudani a sciogliere la coalizione, dalla cui dissoluzione otterrebbero anche libertà di azione militare. Le stesse milizie filo-iraniane, e in particolare quelle di Kataeb Hezbollah e di Haraket Hezbollah al-Nujaba, avrebbero colpito ambasciate e avamposti statunitensi con lo scopo di indebolire la presenza di Washington nel Paese, senza tuttavia mai reclamare gli attacchi. Secondo numerosi analisti, le milizie filo-iraniane del Fronte opererebbero infatti in nome dei movimenti di resistenza islamica, coprendosi dietro la bandiera di gruppi non riconosciuti, per poi reclamare le vittime degli attacchi USA come morti del FMP, alimentando il sentimento anti-statunitense.

Con un eventuale partenza degli statunitensi dall’Iraq diminuirebbero le possibilità di allargamento del conflitto, spesso minacciata da Israele. Senza basi operative alleate stanziate direttamente sul territorio, infatti, Tel Aviv rischierebbe di vedersi troppo isolata per portare avanti gli scontri anche in altri palcoscenici, e potrebbe per tale motivo interrompere le proprie operazioni a Gaza sotto pressione della fazione filo-iraniana. Al tempo stesso, però, quella stessa eventuale pressione della fazione filo-iraniana costringe gli alleati americani a mantenere vigile la presenza sul territorio, per evitare che a causare l’escalation sia l’opposta fazione. È forse anche per tale motivo che il Primo Ministro iracheno ha sostenuto che l’unico modo per evitare un pieno allargamento della guerra, che in verità è già parzialmente in atto in Libano e sul Mar Rosso, è che a fermare gli attacchi sia in primo luogo Israele. Se il primo passo non lo fa Tel Aviv, che in questo momento si trova in una posizione di schiacciante vantaggio nella guerra contro Hamas, i rischi che il conflitto si accenda sono notevoli.

La dichiarazione di al-Sudani collocata nell’attuale situazione mediorientale e inserita nella scacchiera geopolitica, pone una assoluta incognita sul futuro del Medio Oriente. Naturalmente gli Stati Uniti non saranno pronti ad abbandonare il territorio iracheno a cuor leggero, perché lascerebbero troppo spazio di operazione ai suoi rivali dell’Iran, ma al tempo stesso anche l’Iran ha dimostrato di non digerire più la presenza degli USA in Medio Oriente. Una richiesta formale, se dovesse arrivare, potrebbe in tal senso costringere gli Stati Uniti a chiedere a Israele di interrompere il massacro in atto in questo momento a Gaza per evitare ritorsioni da parte della fazione vicina ad Hamas, così come anche spingerlo verso l’altra direzione, o, come probabilmente accadrà, portare a un classico stallo alla messicana in cui nessuno è pronto ad abbassare l’arma, ma neanche a sparare per primo.

[di Dario Lucisano]

L'Indipendente non riceve alcun contributo pubblico né ospita alcuna pubblicità, quindi si sostiene esclusivamente grazie agli abbonati e alle donazioni dei lettori. Non abbiamo né vogliamo avere alcun legame con grandi aziende, multinazionali e partiti politici. E sarà sempre così perché questa è l’unica possibilità, secondo noi, per fare giornalismo libero e imparziale. Un’informazione – finalmente – senza padroni.

Ti è piaciuto questo articolo? Pensi sia importante che notizie e informazioni come queste vengano pubblicate e lette da sempre più persone? Sostieni il nostro lavoro con una donazione. Grazie.

Articoli correlati

1 commento

Iscriviti a The Week
la nostra newsletter settimanale gratuita

Guarda una versione di "The Week" prima di iscriverti e valuta se può interessarti ricevere settimanalmente la nostra newsletter

Ultimi

Articoli nella stessa categoria