giovedì 21 Novembre 2024

Elezioni a Taiwan, sfida agli equilibri geopolitici del pianeta

Oggi, 13 gennaio 2024, si celebrano le elezioni presidenziali a Taiwan, nelle quali tre candidati si contendono il governo del paese. Dopo otto anni del governo di Tsai Ing-Wen, appartenente al Partito Progressista Democratico, questa tornata elettorale potrebbe segnare il futuro dello stato oltre che avere ripercussioni nello scenario internazionale. Difatti, situata a 150 chilometri dalle coste cinesi, l’isola di Formosa rappresenta un cuneo imprescindibile per gli equilibri del Pacifico e, di conseguenza, nelle relazioni tra Stati Uniti d’America e Repubblica Popolare Cinese.

I candidati per queste elezioni offrono posture differenti nei confronti del vicino stato cinese; se i tre confermano la necessità del mantenimento dello status quo taiwanese, ognuno si colloca sulla spinosa questione della relazione con la Cina con proposte e ideologie divergenti. Nonostante sia estremamente improbabile che la situazione possa cambiare drasticamente in seguito a queste elezioni, proviamo ad analizzare iperbolicamente le conseguenze che la vittoria di uno o dell’altro candidato possono comportare sull’area geografica interessata.

La posizione di Taiwan, stato sovrano ma non riconosciuto dall’ONU, è altamente strategica sia geograficamente, che commercialmente, in quanto fa da apripista alla navigazione sull’oceano Pacifico. Attualmente, circondata da Corea del Sud, Giappone, Taiwan e Filippine, la Cina, nonostante vanti numerosi chilometri di costa, appare bloccata nel suo stesso mare. I paesi menzionati sono tutti relazionati, commercialmente e non, con gli Stati Uniti, i quali hanno la possibilità di attuare un controllo e una supremazia sull’intera area.

Se la vittoria del candidato progressista Lai Ching-Te, appartenente al Partito Progressista Democratico, che ha già fortemente ammorbidito le sue idee sull’autonomia dello stato in linea con quelle dell’attuale governo del quale Lai è vicepresidente, portasse all’indipendenza riconosciuta internazionalmente l’isola di Taiwan, ogni progetto di espansione sul Pacifico da parte della Cina si vedrebbe svanito, mentre, per gli Stati Uniti, le ipotetiche relazioni commerciali e militari che scaturirebbero con Taiwan, permetterebbe un controllo tale da tenere la Cina sotto scacco.

[Il candidato del partito progressista Lai Ching-Te.]
Il presidente statunitense Joe Biden, ha più volte, infatti, affermato che in caso di un’aggressione cinese nei confronti di Formosa, le truppe USA sarebbero pronte ad intervenire. In queste affermazioni regna un profondo stato d’ambiguità, in quanto gli Stati Uniti, come affermato da Biden durante una riunione dello scorso novembre a Tokyo con il premier giapponese Fumio Kishida, rispettano la politica della “Unica Cina”, ma disapprovano l’idea dell’unificazione mediante aggressione militare. È interessante notare che, nonostante Taiwan non sia riconosciuto ufficialmente, in particolare modo dagli Stati Uniti, questi siano disposti ad impegnarsi in un conflitto a difesa dell’indipendenza taiwanese. Questa ambivalenza non dovrebbe stupirci; nel 1979 Jimmy Carter firmò un patto definito Taiwan Relations Act attraverso il quale, seppur non riconoscendo formalmente la Repubblica di Cina, gli Stati Uniti ne approvavano il governo autonomico. Inoltre, attraverso l’accordo, non veniva fatta menzione esplicita di un ipotetico intervento militare, ma si confermava l’impegno statunitense nella vendita di armi finalizzate all’autodifesa dello stato di Formosa. L’accordo causò nella Repubblica Popolare Cinese un immediato raffreddamento delle relazioni con gli Stati Uniti, considerando questo sostegno informale come una vera e propria intromissione. A provocazione, negli ultimi anni, le dimostrazioni militari da parte dei caccia cinesi nei cieli taiwanesi sono aumentate considerevolmente, in risposta alle mire separatiste formosane. Xi Jinping ha più volte menzionato, a volte in maniera più aggressiva, altre con maggiore oculatezza, il progetto di riunificazione cinese. Quest’anno, ad esempio, nel consueto appuntamento del discorso di Capodanno, il presidente cinese ha ribadito la necessità di unire le due sponde e i rispettivi “compatrioti”.

Il presidente statunitense ha dato il via nel marzo del 2022 ad un’iniziativa economica chiamata Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity (IPEF), finalizzata a favorire e consolidare le tratte commerciali tra i partecipanti, solidificare la catena d’approvvigionamento e migliorare le infrastrutture coinvolte in ottica ambientale. L’obiettivo principale di questa rete commerciale è chiaramente contenere la Cina nei suoi stessi mari, attraverso il mutuo impegno degli stati, tra i quali annoveriamo India, Giappone, Corea del Sud, Australia e Filippine. Taiwan, non ancora integrato all’IPEF, potrebbe avere interesse nell’entrare a far parte dell’accordo in caso di rielezione del partito progressista, rafforzando ulteriormente gli accordi commerciali, allontanandosi gradualmente dall’orbita economica cinese.

L’invasione della Russia in Ucraina e il genocidio israeliano a Gaza costituiscono un precedente minaccioso per la questione sino-taiwanese che ha riacceso l’attenzione di tutto il mondo sulla questione dello stretto. Anche gli abitanti dell’isola osservano la situazione, e, nonostante il compromesso di Biden, vedono con sospetto la reticenza dell’intervento statunitense a favore dell’Ucraina, temendo così la stessa sorte in caso di conflitto con la Repubblica Popolare.

[Hou Yu-Ih candidato del Kuomintang, asse nazionalista.]
Se vincesse invece l’asse nazionalista del Kuomintang, rappresentato da Hou Yu-Ih, ipoteticamente il copione potrebbe differire. Il Kuomintang ha sempre avuto tra i propri progetti l’unificazione dei due stati. Inizialmente, dopo la ritirata di Chiang Kai-Shek a Taiwan, con la rispettiva repressione che ha portato ai trentotto anni di legge marziale, il sogno del leader nazionalista era quello di riprendere quanto aveva perduto. Sperando, probabilmente, nella fine del comunismo e nella supremazia degli Stati Uniti, il Kuomintang non ebbe la lungimiranza di prevedere le relazioni iniziate da Deng Xiaoping con gli statunitensi, né soprattutto l’esplosione economica che avrebbe vissuto la Cina tra gli anni Novanta e i duemila, perdendo così l’occasione di staccarsi, quantomeno, dall’influenza del vicino comunista. 

La riunificazione cambierebbe gli assetti del Pacifico, permettendo alla Cina l’accesso all’oceano attraverso le coste occidentali di Formosa. Quest’avvenimento potrebbe alzare la tensione nell’area, come ci conferma, ad esempio, l’aumento degli investimenti sulla difesa da parte di stati come il Giappone.

Con l’insediamento al governo da parte dei nazionalisti del KMT, Pechino potrebbe avanzare delle richieste atte a favorire l’unificazione senza ricorrere all’intervento militare. Difatti per la Cina una guerra potrebbe rivelarsi un azzardo da non sottovalutare considerando la crisi economica che sta attraversando, specialmente perché Taiwan sta gradualmente aumentando i propri arsenali militari. Inoltre, la condizione della Marina militare cinese, per quanto stia attuando un processo di affinamento, non sarebbe attualmente nella condizione, per quanto si possa intuire, di mantenere un conflitto armato contro l’efficiente Marina statunitense. 

[Ko Wen-Je, il candidato del Taiwan’s People Party.]
Per quanto riguarda Ko Wen-Je, il candidato del Taiwan’s People Party, non è ancora chiaro cosa la sua elezione possa comportare negli equilibri internazionali. Il suo programma, fortemente focalizzato su questioni di politica interna al paese, non affronta con precisione la relazione con la Repubblica Popolare Cinese. Per quanto si evidenzi la necessità di aprire un dialogo maggiore con il vicino cinese, Ko Wen-Je si distanzia drasticamente dal progetto di riunificazione. Non va dimenticato, però, che i due partiti d’opposizione poco prima dell’inizio della campagna elettorale sono stati vicini a correre insieme alla presidenza, dimostrando, quindi, una certa visione comune sulle politiche da attuare per il paese.

Alla questione militare però, si aggiunge quella commerciale, nella quale Taiwan rappresenta, nuovamente, un fulcro per l’equilibrio economico mondiale. L’isola, infatti, ospita la più importante azienda produttrice di semiconduttori al mondo: la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), fondata nel 1987 da Morris Chang a Hsinchu, la quale soddisfa la metà del fabbisogno mondiale. Dopo la crisi seguente all’improvviso innalzamento della domanda causato dall’emergenza sanitaria da COVID-19, durante il 2020, TSMC ha dato vita ad un processo di esternalizzazione, che ha portato all’inaugurazione di vari impianti, tra i quali uno negli Stati Uniti, uno in Cina e il progetto di costruirne vari nel mondo, come ad esempio uno a Dresda, in Germania. Questo processo di espansione verso l’Occidente svelerebbe il timore da parte dell’azienda di un ulteriore progetto di Pechino: se la Cina dovesse finalizzare l’unificazione, potrebbe mettere le mani su quest’industria, inserendosi nello scacchiere internazionale della produzione di microchip e cambiando così le regole del gioco. 

Oltre agli Stati Uniti, queste elezioni sono osservate da vari protagonisti sul piano globale, primo tra tutti, l’India. Il paese più popolato al mondo ha iniziato negli ultimi anni una fitta rete di relazioni commerciali che hanno portato, tra gli altri, a numerosi investimenti taiwanesi nella penisola indiana. Attraverso la politica di apertura verso il sud est asiatico effettuata dal DPP, lo stato indiano ha potuto godere del partenariato commerciale che un tempo sarebbe stato possibile solo se mediato dall’intercessione cinese. La rielezione dei nazionalisti comporterebbe il declino di queste relazioni, come avvenne durante gli anni di governo di Ma Ying-jeou, nei quali si procedette all’interruzione del Free Trade Agreement (FTA) tra i due stati. Il crescente colosso indiano perderebbe così l’opportunità di mantenersi in gioco contro quello cinese. Insieme all’India, tutti gli stati appartenenti all’IPEF guardano con attenzione lo svolgimento elettorale, tra i quali Regno Unito e Canada che hanno già dimostrato interesse ad entrare nel patto.

Il mantenimento dello status quo sembra essere per i candidati e per la popolazione la scelta migliore. Protendere verso il lato filocinese o verso quello indipendentista, sembra poter causare degli stravolgimenti per la stabilità mondiale. Gli elettori sceglieranno se mantenere l’ago della bilancia in questo precario equilibrio.

[di Armando Negro, corrispondente da Taiwan]

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1 commento

  1. Le elezioni non cambiano nulla, la Cina sta crescendo ovviamente non in modo rettilineo, ma con alti e bassi, gli USA ormai in mano ad assassini privi di pulsioni ideali, stanno per crollare e spero l’Italia per prima o ultima, darà loro il ben servito, che finalmente rimetterà il Mondo in carreggiata.

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