La guerra non è più dichiarata,
ma proseguita.
L’inaudito si è fatto quotidiano.
L’eroe resta distante dalle battaglie.
Il debole è avanzato nelle zone di fuoco.
L’uniforme del giorno è la pazienza, l’onorificenza la stella dimessa della speranza all’altezza del cuore.
Viene conferita quando non succede più nulla,
quando smette di martellare l’artiglieria,
quando il nemico è diventato invisibile,
e l’ombra di armamento perenne
copre il cielo.
Viene conferita per la fuga dinanzi alle bandiere
per la prodezza dinanzi all’amico,
per lo svelamento di segreti indegni
e la non osservanza di qualunque comando.
(trad. Anna Maria Curci)
Il presente della poesia è la perennità, l’uscire dal tempo, e quindi dal succedere, dal divenire, e anche dal decadere. Vale l’insistenza del mito, di un mito però senza retorica, diseguale, sganciato dalla ripetizione e dalla necessità.
La poesia domina, va oltre. Non parla dunque questa poesia della pace, non spettano alla poetessa prediche inutili ma lei dice che la guerra continua, una guerra però senza eroi, senza medaglie, che ha come divisa la pazienza, una guerra non dichiarata, come clima perverso di tutti i giorni, dov’è il debole a venir chiamato a combattere, dove i nemici sono invisibili.
Quindi se la guerra è questa, e non quella roboante degli eserciti, se questa è la guerra allora forse non esiste una vera pace.
Bachmann cantava in un’altra poesia che per ingannare il tempo bastava allacciarsi una scarpa, sospendere la logica perversa di qualsiasi schema. Interrompere.
Giochiamo col tempo il gioco impossibile della reversibilità, diceva, se i tempi si fanno duri bisogna rigettare i pesci nell’acqua, non fare più nulla di quanto è ovvio, rifuggire dai comandi. Negare insomma l’inevitabile.
Questo è la poesia, un destino di parole che vogliono sfuggire ai sensi predestinati e sperano che le regole automatiche soccombano.
Bisogna quindi saper guardare nella nebbia, scriveva Ingeborg, perché c’è una evidenza taciuta che non può sfuggire al poeta. E la poesia può aprire squarci in quella nebbia, compiere quel rito aurorale e vespertino insieme che in lei ci fa ricordare le visioni ombrose, spettrali di Boechlin, gli stordimenti appunto del crepuscolo degli dèi.
[di Gian Paolo Caprettini]