Si è ufficialmente chiuso con una storica pronuncia della Corte di Cassazione il “Maxiprocesso” al clan dei Casamonica – uno dei processi più importanti degli ultimi decenni per la lotta alla criminalità organizzata in Italia – in cui erano imputati più di 30 esponenti del clan romano. Confermando le accuse di 416bis, la Corte Suprema ha definitivamente sancito che i Casamonica sono una famiglia mafiosa. È stato inoltre accolto il ricorso della Procura generale che chiedeva il riconoscimento dell’aggravante dell’associazione armata per alcune posizioni di vertice, rispetto a cui è stato disposto sul punto un appello-bis per la rideterminazione della pena. Nell’ambito del “Maxi”, oltre al certosino lavoro degli inquirenti, sono risultate fondamentali per la ricostruzione dei fatti e l’attestazione delle responsabilità penali le rivelazioni dei primi collaboratori di giustizia affiorati dall’ambiente del clan, ovvero Deborah Cerreoni e Massimiliano Fazzari.
«Il gruppo criminale Casamonica, operante nella zona Appio-Tuscolana di Roma, con base operativa in vicolo di Porta Furba è organizzato in una “galassia” – avevano scritto nella loro sentenza, ora confermata dalla Cassazione, i giudici della Corte d’Appello di Roma lo scorso novembre – ossia aggregato malavitoso costituito da due gruppi familiari dediti ad usura, estorsioni, abusivo esercizio del credito, nonché a traffico di stupefacenti, dotato di un indiscusso “prestigio criminale” nel panorama delinquenziale romano, i cui singoli operavano tuttavia in costante interconnessione e proteggendosi vicendevolmente, così da aumentare il senso di assoggettamento e impotenza delle vittime, consapevoli di essere al cospetto di un gruppo molto coeso ed esteso». Per arrivare a tale statuizione ci sono però voluti diversi anni. Il Maxiprocesso ai Casamonica – nato dall’operazione “Gramigna”, che prese il via nel luglio 2018 – è ufficialmente iniziato il 27 gennaio 2020. 44 membri della famiglia di Porta Furba, una delle “galassie” più potenti del clan, sono stati trascinati alla sbarra per reati che spaziano dall’associazione mafiosa dedita al traffico e allo spaccio di droga all’estorsione, dall’usura alla detenzione illegale di armi, fino al riciclaggio di denaro sporco. Secondo i pm, che hanno chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio, “È stato accertato il tipico ‘modus agendi’” posto in essere dai componenti del clan, caratterizzato da larvate forme di violenza e minaccia, veicolate attraverso un compulsivo approccio verso le vittime, sottoposte a continue richieste prive di ogni giustificazione e che finiscono per metterle in uno stato di totale assoggettamento”.
Un importantissimo impulso al processo è stato dato da una crepa apertasi all’interno della famiglia e sostanziatasi nella decisione di Deborah Cerreoni – ex moglie di Massimiliano Casamonica, membro di spicco del clan, intranea all’organizzazione –, di collaborare con la giustizia. Consentendo agli inquirenti di “immergersi” nel peculiare spaccato affaristico e relazionale della famiglia, Cerreoni ha descritto infatti per filo e per segno ai pm tutte le attività illegali – in particolare lo spaccio di droga, la detenzione di armi e l’usura, “marchio di fabbrica” della “casata” – che ruotavano attorno a Porta Furba. Negli interrogatori con i magistrati, la collaboratrice di giustizia aveva anche fatto luce sul dirimente ruolo svolto dalla componente femminile del clan Liliana Casamonica (detta “Stefania”) nella gestione dei «rapporti con gli avvocati per conto di tutti i familiari», anche e soprattutto di quelli detenuti, dei cui messaggi si faceva latrice da vero e proprio «punto di riferimento». In aula ha deposto anche un altro importante “pentito”, Massimiliano Fazzari, uomo di ‘ndrangheta da tempo stabilitosi a Roma e inserito nell’ambiente criminale di Porta Furba dal 2011. Dopo alcuni anni, dichiarandosi colpevole di numerosi reati, Fazzari ha scelto la strada della collaborazione con la giustizia, fornendo agli inquirenti informazioni sulle dinamiche familiari e sull’assetto gerarchico del clan, che, nei territori di influenza, avrebbe secondo il pentito «un controllo equiparabile a quello che può avere un locale di ‘ndrangheta in un paese calabrese». Fazzari ha inoltre offerto a processo importanti elementi sui contatti e le presunte entrature del clan nelle forze dell’ordine.
Il clan non ha avuto scampo né in primo né in secondo grado, venendo invece bersagliato da condanne molto alte. In appello, a subire le pene più pesanti erano stati Domenico (30 anni), Massimiliano (28 anni e 10 mesi), Pasquale (24 anni), Salvatore (26 anni e 2 mesi), Ottavio (17 anni), Giuseppe (16 anni e 2 mesi), Guerrino (16 anni e 2), Liliana (15 anni e 8 mesi) e Luciano Casamonica (13 anni e 9 mesi). Confermando l’impianto accusatorio della Procura e la sussistenza del reato di associazione mafiosa, i giudici di secondo grado non avevano però riconosciuto quello di associazione armata. Decisione cui si è opposta la Cassazione, chiedendo alla Corte d’appello alcune rideterminazioni di pena.
Non è la prima volta che la Cassazione mette il suo timbro sull’accusa di associazione mafiosa nei confronti della famiglia Casamonica. Lo aveva già fatto lo scorso 24 novembre chiudendo il processo scaturito dall’operazione “Noi proteggiamo Roma”, andata in scena il 16 giugno 2020 (mentre da 5 mesi era già in corso il “Maxi” ai Casamonica). Nello specifico, la Cassazione ha confermato l’accusa di mafia per quattro esponenti del clan, come già attestato dalle sentenze di primo e secondo grado, nel quadro di un processo con rito abbreviato.
[di Stefano Baudino]