lunedì 22 Luglio 2024

Armonia e alienazione, il cinema come mito quotidiano

Chissà se ha ragione Andrej Tarkovskij quando afferma (in Scolpire il tempo, Ubulibri 2002, p. 161) che il cinema e la musica sono arti immediate. Il cinema è arte immediata, secondo il regista russo, perché il film è una realtà sensibile e lo spettatore la percepisce appunto così, “come una seconda realtà”. Come se non esistesse un linguaggio specifico del cinema, come se il mondo del film fosse oggetto di una sensibilità quasi naturale, i cui materiali si trovano a disposizione dinanzi al lavoro del regista e poi così vengono offerti allo spettatore.

Evidentemente questa è una visione mitologica, dove il cinema non ricorre al montaggio, alle sue tecniche ma ci offre panoramiche e primi piani, con relativi suoni e rumori, che corrispondono allo sguardo di qualcuno che fosse non soltanto presente ma interno alla scena. Quasi come in un sogno. Cinematografare è allora guardare, intercettare forme, oggetti animati e inanimati nello spazio, trovarsi all’interno di un flusso. Sicché il cinema, oltre a essere mito, diventa vita. Assomiglia a una situazione aurorale, primigenia, sorgiva come se ciascuno venisse al mondo con il cinema, con quello che guarda e che gli viene fatto vedere.

Quasi una rifondazione della realtà, armonica forse ma in ultima analisi anche alienante perché ti darebbe l’impressione che non ci fosse più niente da fare. Se pensate all’iperrealismo o ai quadri di Edward Hopper ad esempio, ecco l’esserci delle persone e delle cose che funziona come un imbattersi casualmente, senza che si formino veri incontri, possibili narrativi, soluzioni imprevedibili, sorprese, come se tutto fosse predeterminato e in fondo immutabile. Si tratta della esasperazione del principio esistenzialista, che riprendeva i principi della melancolia rinascimentale, preso nella falsa alternativa della piena libertà della coscienza e della assoluta determinazione delle cose.

Da questo sentimento non risolto nasce l’idea stessa dell’arte cinematografica, tra proposizione di sogni che si avverano proprio perché il cinema li mostra (Fellini) e sogni che non si avverano perché fanno parte di tempi perduti di cui il cinema però ti mostra le tracce (Bergman). Fuori da questa alternativa, il cinema si prende altri tipi di responsabilità. Quello di mostrare , ad esempio, come avrebbero potuto o dovuto andare le cose, quello di denunciare i guasti di una civiltà attraversata dall’ipocrisia e dal cinismo o, al contrario, pensata come la migliore possibile. Un cinema, allora, che fa della filosofia e della politica esaltando elementi marginali oppure sottoponendo a critica, anche sarcastica, anche comica, gli atteggiamenti prevalenti di una società.

Ma per chi ama il cinema, il cuore pulsante rimane la storia e il modo di raccontarla. Intercettare umori e sensazioni articolandoli nelle differenti sensibilità dei personaggi, restituire a chi guarda tratti di quella commedia umana che non è più la vicenda ripetuta all’infinito dei miti tragici ma la varietà dei caratteri umani, la nostra somiglianza con archetipi determinati, il nostro vivere situazioni che non possono sfuggire a una qualche tipologia ma che in questo farsi vedere somiglianti acquistano, di fronte allo spettatore, quasi una forma di liberazione.

“L’artista non è un essere libero che ubbidisce unicamente alla propria volontà. La sua situazione è rigidamente condizionata da una catena di eventi che lo hanno preceduto. Questa catena gli resta invisibile, ma limita i suoi movimenti… Le condizioni imposte da eventi passati fanno sì che egli debba o continuare obbedientemente sulla strada della tradizione o ribellarsi contro di essa” (G. Kubler, La forma del tempo, Einaudi 1976, pp. 62-63). “La funzione essenziale dei miti antichi era quella di inserire l’individuo nel moto circolare della società e della natura e di sostenerne al tempo stesso l’armonia; la mitologia di Kafka esprime invece l’insuperabile alienazione dell’uomo dinanzi alle forze extrapersonali, sociali e naturali” (E. Meletinskij, Il mito, Editori Riuniti 1993, p. 406).

Questo è l’orizzonte in cui si muove anche il cinema come arte insieme drammatica e figurativa, con la sua propensione variabile ad essere più o meno mimetico, più o meno simile-a, lavorando sulle aspettative e le sorprese; come se il mito – cioè l’anima – e l’alienazione – cioè l’esperienza – cercassero, pretendessero quasi, con la forza del cinema e con le sue potenzialità e le sue logiche, una impossibile armonia.

[di Gianpaolo Caprettini]

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