La moda non è mai solo moda. Fin dai tempi dei tempi è stata specchio della società, ambito di convergenza di usi, costumi, credenze e modi di vivere; dopotutto, la moda è frutto ed espressione della volontà del singolo quanto della società a cui appartiene. Ecco perché dovrebbe far riflettere che l’applicazione più scaricata negli USA negli ultimi mesi sia Temu, un rivenditore di ultra fast fashion che offre quotidianamente quintali di prodotti a costi irrisori (rivale di Shein, altro colosso dell’abbigliamento veloce ed economico che fa sembrare storici marchi del fast fashion addirittura “cari”). E che si parla tantissimo di sostenibilità, ma si fa un’enorme fatica a cambiare abitudini e ridimensionare i consumi. Quest’ultima difficoltà subentra perché, oltre agli evidenti danni ambientali e sociali di questo sistema produttivo, ci sono altrettanti effetti collaterali che si insidiano in maniera subdola nella vita quotidiana (e sono quelli che impediscono di fare passi concreti in un’altra direzione).
Dov’è finita la pazienza?
L’ascesa del fast fashion e dell’e-commerce ha aperto le porte a un nuovo, esilarante mondo per i consumatori. Dalla fine degli anni ’90, fare acquisti comodamente da casa è diventata un’esperienza rapida, facile ed economica. Oltre a trasformare l’industria tessile, la moda veloce ha evidentemente alterato la mente dei consumatori. Enorme quantità di scelta, costi contenuti, accessibilità in qualunque luogo/momento, consegne velocissime e possibilità di reso pressoché infinita. I marchi di e-commerce caricano nuovi stili ogni giorno, immagazzinando migliaia di articoli contemporaneamente. Oltre all’impatto sul pianeta, questo approccio frenetico è andato ad alimentare un consumo eccessivo. Senza logica e senza controllo. Per cercare di ridimensionare il tutto, la controparte slow fashion ha iniziato a proporre alternative, sponsorizzando il consumo di seconda mano e le pratiche circolari nel settore tessile; ma anche introducendo la rivendita, il noleggio e la riparazione di capi e accessori. Alternative sì, ma che richiedono uno sforzo maggiore sia da parte dei consumatori che dei marchi, oltre che un tempo maggiore per essere elaborati (sartoriale, riparazioni ed upcycling non sono processi che si fanno nel giro di poche ore). Eppure, il cliente medio si approccia all’artigiano come fosse Amazon, pretendendo una rapidità impossibile da eguagliare. Dove sono finite la pazienza e l’arte di saper aspettare? Difficile fare a meno del tutto-e-subito, quando questo è diventato parte degli usi e costumi quotidiani. Difficile dire addio alla velocità, quando il bisogno più impellente è quello della gratificazione immediata.
Dipendenza da shopping
Gratificazione e… acquisti compulsivi. Sebbene il motto dilagante ultimamente sia meno ma meglio, tenere a freno il portafoglio ed investire in qualità duratura sembra infattibile. La dipendenza da shopping, ahimè, miete ancora vittime. La smania di acquisti, quella che Sophie Kinsella nel best-seller I love shopping identificò con il termine Shopaholic, parola inglese coniata per descrivere una persona che fa acquisti in maniera ossessiva e incontrollata, sopravvive ancora. Dopotutto possedere cose che piacciono mentre una euforica sensazione di benessere spinge verso l’alto l’asticella dell’autostima è un’altra di quelle cose che si sono infiltrate sotto la pelle dell’essere umano contemporaneo. Quello che è costantemente alla ricerca dell’approvazione altrui; che ha bisogno di apparire, mostrare, dimostrare ed appartenere (il senso di appartenenza, o la più moderna FOMO, non è solo appannaggio di gruppi di adolescenti, ma attiene alla più ampia questione legata all’approvazione sociale, che travolge tutti, ad ogni età).
Nel momento storico attuale, poi, stress, ansia, insicurezze e fragilità sono all’ordine del giorno, per cui è facile cadere nello shopping come meccanismo di compensazione; comprare un oggetto rappresenta un momento di evasione, una coccola, una gratificazione e un rassicurante appagamento dell’ego. Certo, economicamente la situazione non è rosea e gli stipendi bastano giusto per la sopravvivenza; proprio per questo è più facile optare per i siti di ultra fast fashion o rivolgersi ai negozi di second hand, ma con lo stesso approccio iper-consumistico. Fare acquisti in maniera consapevole (o non farne) fa ancora tanta, tanta fatica.
Perdita del senso del valore
In un mondo che gioca al ribasso, qualunque altra cosa diventa cara. Altro effetto indesiderato della logica fast (dalla moda al cibo, ci mettiamo dentro tutto) è la percezione che quei prezzi incredibilmente bassi siano normali e giusti. Abituati a pagare pochissimo, tutto il resto è eccessivo. Nonostante sia palesemente dissonante il fatto che una maglietta costi meno di cappuccino e brioche, nonostante sia chiaro anche per i non addetti ai lavori il perché certi capi/oggetti costino così poco (dai materiali di dubbia qualità, produzioni dall’altro capo del mondo e lavoratori pagati sotto la soglia consentita, oltre che meccanismi a ciclo continuo) non se ne riesce a fare a meno. E tutto quello che supera determinate soglie di prezzo viene etichettato come costoso.
La cura del design, la bellezza, il lavoro artigianale, le pratiche corrette (tra cui pagare onestamente le tasse) e la qualità passano in secondo piano. Il prezzo basso è quello che conta, il valore reale viene meno e il circolo vizioso si alimenta.
La narrazione della democratizzazione della moda grazie all’avvento del fast fashion è una pericolosa deriva di un sistema che ancora fa leva sull’avere per essere (e lavorare a testa bassa per poi consumare, comunque). Anche a discapito del pianeta, degli altri… e di noi stessi. Ma non è mai troppo tardi per rallentare. E scendere volontariamente dalla ruota.
[di Marina Savarese]