giovedì 21 Novembre 2024

Io sono un palestinese

«Lasciate che ogni nazione sappia, sia che ci voglia bene o che ci voglia male, che noi pagheremo qualsiasi prezzo, sopporteremo qualsiasi peso, incontreremo qualsiasi difficoltà, sosterremo qualsiasi amico, ci opporremo a qualsiasi nemico, per assicurare la sopravvivenza e il successo della libertà». Queste le parole del presidente John F. Kennedy pronunciate nella famosa occasione di Berlino, 26 giugno 1963. «Io sono un berlinese» disse allora in tedesco. Oggi, chiunque voglia raccogliere la sua voce dovrebbe dire «Io sono un palestinese», sentendosi vicino a tutti i popoli e tutte le etnie che vivono da quelle parti.

Non volle dire Kennedy «io mi sento tedesco» ma «io mi sento uno di qui, uno di voi». Disse allora: «Tutti gli uomini liberi, dovunque essi vivono, sono cittadini di Berlino», oggi potremmo dire lo stesso anche di Gerusalemme, e di Gaza.

Vivere significa convivere e se poi la convivenza porta a dividere lo stesso cielo, le stesse stelle, per popoli che sono stati profughi cacciati, pellegrini, nomadi, condividere le stesse rotte vuol dire inevitabilmente raggiungere gli stessi porti. Naviganti di Dio, queste genti di Samaria, Giudea, Galilea, tanto per usare parole ascoltate nei vangeli, naviganti di un Dio che punisce, che perdona, che soffre per tutti, pur sempre Dio di queste contrade, per cui dichiararsi palestinese, israelita, cristiano, musulmano, ebreo, egiziano, arabo di tutte le più varie identità, significa essere con Colui in cui crediamo, sentirlo anche parte di quelle contrade.

Contrade destinate a parlare, a urlare al mondo, a pregare o a non credere, ma sempre attraversate dalla domanda di sempre, se Dio c’è, dov’è ora? Su quali alture si è ritirato per osservare piangendo le stragi, gli attentati, gli orrori delle carneficine di giovani inermi e di bambini fiduciosi?

La strage degli innocenti dei tempi della occupazione romana era stata perpetrata proprio per eliminare Colui che qualcuno riteneva venisse dal cielo e per questo potesse risultare insidioso. La strage degli innocenti continua, cambia vittime, cambia carnefici, cambia pretesti e principi malsani ma non cambia la volontà di dominio e sopraffazione che esprime. Un giorno forse sentiremo dire «Io sono l’ultimo di voi, io sono Dio, non ho nulla da chiedervi ma rimango nelle retrovie, non voglio dominare in alcun modo. Ma vi prego, non distruggetevi tutti, non lasciatemi un’altra volta solo. Se guardaste il cielo e non gli stupidi confini delle vostre terre, se vi scambiaste per un giorno i figli per farli giocare in cortili diversi, sotto tende diverse, sappiate allora che Dio vi potrà accompagnare».

Tutti siete accomunati da quella Gerusalemme, patria di una umanità sofferente ma gioiosa, in cammino, in fuga. Gerusalemme, terra da sottrarre da oltre mille anni a un dominio di altri, destinazione di crociate contro vari sultani, città di luce e di sangue, preda da conquistare o da spartire, e insieme città divina, sede celeste. Custodite Gerusalemme, siatene degni, camminate per le strade di Gaza come sulle rovine di una sinagoga, di una chiesa, di una moschea.

“Se io ti dimentico, Gerusalemme, che la mia mano destra si secchi, se non ti metto al sommo della mia gioia”. (Canto dei fanciulli esiliati da Israele, Salmi, 137).

“Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali”. (Gesù dal Monte degli Ulivi, Matteo 23, 37).

“Oh, Gerusalemme, la rugiada che cade su di te guarisce ogni male perché essa discende dai giardini del Paradiso”. (L’Hadith, parole del profeta Maometto)

Disprezzate voi stessi, chiunque voi siate, per quello che avete fatto. Trasformate finalmente, una volta per tutte, la solitudine dell’orrore nel silenzio di una preghiera, di una implorazione di perdono. Ci sarà qualcuno, una buona volta, che avrà il coraggio di dire: «Io sono palestinese» senza davvero esserlo; ma ancora, purtroppo, quel volto non lo conosciamo. Conosciamo soltanto qualcuno che urla: «La Palestina è mia!». Ma, evidentemente non è la stessa cosa.

[di Gian Paolo Caprettini]

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12 Commenti

  1. Che io ricordi, e ovviamente potrei ricordare male ed essere sfuggito, nessun giornalista dell’ Indipendente ha mai risposto ai commenti degli utenti, nei propri articoli. Grazie Paolo per le tue risposte ai noi lettori, spero che più giornalisti attuino questo sistema di comunicazione che ci fa sentire “più vicini” e permette un bello scambi di idee e pensieri

  2. Io sono Palestinese. Non posso però riconoscermi in quel Dio. Quel Dio che Ebrei, Musulmani, Cristiani hanno creato a immagine e somiglianza della loro vanità di essere i migliori e di avere diritti che sono negati agli altri. Torniamo a guardare in faccia le persone e le loro sofferenze senza sentire dietro di sè la protezione e la giustificazione di quel Dio.

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