L’impatto che la moda ha sull’ambiente è decisamente pesante. L’inquinamento si propaga nell’aria sotto forma di emissioni di carbonio, ma anche nell’acqua e nel terreno, grazie al rilascio di sostanze chimiche tossiche durante i processi manifatturieri. Le produzioni rapide e massicce, inoltre, stanno consumando rapidamente le risorse naturali, come il suolo, l’acqua, l’energia e le materie prime. Nello specifico, la grossa domanda di fibre come lana, rayon e viscosa, stanno contribuendo alla deforestazione di vaste aree del pianeta. Se a questo ci aggiungiamo il massiccio accumulo di rifiuti tessili abbandonati in discariche all’area aperta in giro per il mondo e le microplastiche diffuse ormai ovunque, non stupisce come tutto questo abbia grosse implicazioni con la perdita di biodiversità e la salute degli ecosistemi. In quest’ottica, forse, essere sostenibili non basta. Bisogna attivarsi per ridurre i danni e nello stesso tempo essere in grado di rigenerare e ricostruire.
Cosa vuol dire rigenerare
Dopo anni di colture intensive, monocolture e sfruttamento massiccio del suolo, la terra si è progressivamente impoverita. Rigenerare il suolo significa ridurre e limitare quel processo di degradazione a cui i terreni sono stati sottoposti nel tempo, diminuendo la capacità di quel suolo di generare prodotti. A depredare questa ricchezza c’è in primo luogo l’industria alimentare, ma anche la filiera produttrice del cotone ci mette del suo (la produzione del cotone ha un alto impatto ambientale, sia per il consumo di acqua sia per l’uso di sostanze chimiche).
Quando si parla di agricoltura rigenerativa si intende lavorare in armonia con la natura, con una serie di pratiche e principi che siano in grado di aumentare la biodiversità, di arricchire il suolo e migliorare l’ecosistema circostante. Un approccio olistico che sia in grado di preservare la natura invece di sfruttarla. Significa essere in grado di restituire e non solo prendere. Seguendo quelli che sono i ritmi naturali e non le follie partorite dalla mente umana per aumentare a dismisura la produttività.
In concreto si tratta di far ruotare i vari tipi di colture, lavorare poco o nulla il terreno, usare compost naturale come concime e colture di copertura. I ritmi di produzione sono lenti, i quantitativi dipendono strettamente dall’andamento stagionale e le coltivazioni non vengono forzate in nessuno modo. Il suolo, arricchito di preziosi nutrienti, riesce a catturare il carbonio dall’atmosfera attraverso la fotosintesi, trasferendolo dall’aria alla terra in modo che diventi cibo per miceli e microrganismi.
Un ritorno al passato, a quelle pratiche indigene e conoscenze antiche che sono in grado di aiutare i terreni degradati a rigenerarsi, naturalmente. In queste condizioni a beneficiarne non è solo la terra, ma anche chi la lavora: meno esposti a sostanze tossiche e con ritmi di vita/lavoro decisamente più adeguati.
Tutelare la biodiversità, ovvero la grande varietà e ricchezza di forme di vita presenti sulla Terra (tra cui piante, animali, microrganismi ed ecosistemi appartenenti alla biosfera), è prioritario.
Moda, rigenerazione e biodiversità
La moda attinge continuamente alle risorse naturali. Fast fashion, ma anche lusso, che spesso va a frugare in sistemi fragili e limitati alla ricerca di materie prime di qualità o molto preziose. Avvolti dal senso di colpa o dalla reale convinzione che questi ripetuti furti alla natura non siano troppo salutari sulla distanza, moltissimi marchi di moda stanno investendo nei sistemi rigenerativi; mentre, contemporaneamente, lavorano per ridurre l’impatto ambientale lungo tutta la catena di fornitura mirando a portare le emissioni di carbonio a zero (catturando più di quello che producono…perché smettere di produrne così tanto sembra tuttavia impossibile).
L’agricoltura rigenerativa applicata alla produzione di fibre tessili è un ambito sul quale si lavora da diversi anni, soprattutto per quanto riguarda il cotone, ma anche per la lana e altre fibre di origine naturale. La californiana Fibershed è un’organizzazione che dal 2010 progetta e supporta questo tipo di agricoltura; il loro motto (e obiettivo finale) è “from soil to soil”, dal suolo al suolo, ovvero arrivare a produrre con il minor impatto possibile una materia prima in grado di biodegradarsi completamente nel terreno una volta finita “la vita” del capo.
Un ambito nel quale sperimentazione e ricerca vanno a braccetto con tecnologia e test scientifici; utili, ad esempio, per capire quali piante abbinare a quelle del cotone per ottenere dei vantaggi di crescita complessivi. Decidere di abbracciare questo sistema, oltre a minimizzare il proprio impatto, può aiutare i marchi ad essere più trasparenti, tracciando la filiera fin dal momento della coltivazione della fibra (from farm to closet, dalla fattoria all’armadio).
Un obiettivo nobile da raggiungere, che prevede sforzi ed una grossa presa di coscienza: quella che continuare in questo modo, con questi ritmi produttivi e con queste quantità esagerate, non porterà lontano. Visto che l’industria della moda ha già preso tanto, forse sarebbe il momento di iniziare a restituire.
[di Marina Savarese]