sabato 2 Novembre 2024

Tra le macerie della verità

Questo titolo mi è suggerito da una immagine di un valoroso giornalista che ho avuto la fortuna di conoscere, Mimmo Càndito, fotografato tra le macerie, se ricordo bene, della guerra in Iraq e da una sua battuta da me raccolta mentre insegnava a Scienze della Comunicazione, Università di Torino. “Un giornalista deve essere sempre corrispondente di guerra anche quando la guerra non c’è”. Non diversamente Ryszard Kapuściński quando sostiene che “il vero giornalismo è intenzionale, cerca di produrre un qualche cambiamento. Il giornalista si batte per qualcosa, racconta per ottenere qualcosa” (Autoritratto di un reporter, Feltrinelli 2006, p. 110).

“Il lato più tragico della condizione umana – scriveva Oriana Fallaci nel 1977 nella premessa al suo volume Intervista con la storia – a me sembra proprio l’avere bisogno di un’autorità che governi, di un capo. Non si sa mai dove incomincia e finisce il potere di un capo: l’unica cosa sicura è che non puoi controllarlo e che fucila la tua libertà. Peggio: è la dimostrazione più amara che la libertà in assoluto non esiste… Anche se bisogna comportarsi come se esistesse e cercarla. Costi il prezzo che costi”. Dieci anni prima Oriana era già stata inviata di guerra, per L’Europeo, in Vietnam, la prima donna con quell’incarico. Il racconto che ne fece riflette tragicamente fatti recenti; ad esempio nella testimonianza di quel sergente americano: “Si sparava a tutti, a tutto, anche senza ragione, per esempio alle capanne che bruciavano… Si sparava anche ai bambini…” (Niente e così sia, Rizzoli 1970, p. 119). E il pensiero non corre soltanto alla Palestina ma ad esempio a quella azione dei terroristi ceceni, collegati ad Al Qaeda, Beslan, settembre 2004, dove morirono 150 bambini, e all’articolo di Marcello Foa che ne raccontò su Il Giornale del 5 settembre.

Sto sfogliando due manuali di tecniche della scrittura giornalistica, quello di Franco Salerno (Simone ed. 2009) e quello di Alberto Papuzzi e Annalisa Magone. Nel primo si esaminano i differenti atteggiamenti, intenzionalità, capacità stilistiche, aspetto d’insieme che i pezzi possono avere, considerando centrale la forma espressiva; nel secondo si focalizza molto l’attenzione sulla deontologia, non soltanto però sulla carta dei doveri stabiliti, ma anche sul rapporto fiduciario con il lettore, sul contributo della coscienza professionale. Il testo di Papuzzi e Magone è del 2001 (ed. Celid) e colpisce tristemente l’anacronismo di questa osservazione: “è opinione condivisa che il giornalismo americano goda del più alto tasso etico” e che ciò, secondo gli autori, dipenda dalla posizione culturale che ha assunto nella storia il giornalismo statunitense.

Certamente il giornalismo di cui stiamo parlando è stato profondamente modificato, ridimensionato, e messo in discussione dai cosiddetti new media, dalla accessibilità più o meno legittima, più o meno consentita a fonti anche riservate, per cui non si raccolgono più le voci dei testimoni diretti ma si trasformano in notizie le informazioni e le conoscenze ottenute in modo anche artificioso. Il modello storico da riprendere è forse quello delle intercettazioni (e prima ancora, nei secoli remoti, quello del pettegolezzo) che ha tuttavia come input le voci, non i più svariati e segreti data base, con tutta la casistica giuridica che è stata generata dalla loro messa in circolazione. Tutti conosciamo la grande forza che hanno assunto ‘le voci che corrono’ nella dinamica moderna dei mass media, sino alle nuove potenzialità espresse dai social, dove le voci e i loro stili più vari assumono un aspetto scritto, una veste linguisticamente formalizzata.

L’esempio artistico più importante è il film di Francis Ford Coppola, non però l’Apocalypse Now che ci riporterebbe alla violenza indiscriminata di cui parlavamo prima, bensì La conversazione che profetizza, come tutti sanno, nell’ossessione di venire a sapere e di svelare, ricostruendo le più varie motivazioni e intenzionalità, la scandalo Watergate.

Il potere, i poteri in effetti non soltanto agiscono ma parlano e scrivono, ordinano e minacciano, decidono e intervengono con una incessante documentazione linguistica, e con l’impiego dei più vari linguaggi. E i database fanno parte organicamente di tutto questo. Come aveva ragione Ludwig Wittgenstein quando sosteneva, nei suoi interventi da filosofo del linguaggio, che ad esistere, “a fare il mondo”, non sono semplicemente gli oggetti, le cose! Il mondo è fatto di fatti. E il primo fatto fra tutti è l’azione che compie il linguaggio, rendendo davvero fattuali i dati perché fornisce loro una veste, una organizzazione espressiva, una processualità di cause ed effetti.

Ecco dunque che si può finire in galera non per quello che si è scoperto ma per quello che poi se ne è detto. Perché la conseguenza più importante, legata strettamente al potere e alle forme di controllo, è l’immaginazione che può scaturire da ciò che viene fatto sapere. E inevitabilmente, di conseguenza, colui che fa sapere, se non ha potere politico viene ad avere potere sciamanico, potere carismatico. Una grazia che il potere fattuale non ha quasi mai mentre il potere linguistico ha quasi sempre. Una grazia che si esprime come un urlo sopra le macerie della verità.

[di Gian Paolo Caprettini]

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