martedì 3 Dicembre 2024

23 dicembre 1984, bomba sul Rapido 904: “Quando la mafia iniziò a ricattare lo Stato”

Sono passati quasi 40 anni da quell’eccidio, ma la magistratura antimafia ritiene che sulla strage del Rapido 904, anche nota come “strage di Natale”, ci sia ancora molto da scoprire. La DDA di Firenze ha infatti deciso di riaprire le indagini sull’attentato consumatosi il 23 dicembre 1984 sul treno Napoli-Milano, quando una tremenda detonazione squarciò il vagone 9 di seconda classe, mentre il convoglio – gremito di persone che si spostavano per le Feste – percorreva la galleria ferroviaria di San Benedetto Val di Sambro, nella città metropolitana di Bologna. Quel giorno furono spezzate 16 vite, tra cui quelle di tre bambini, mentre i feriti furono ben 267. E se a livello processuale è stata definitivamente accertata la matrice mafiosa del delitto, inquadrato come anello di collegamento tra le bombe della “strategia della tensione” (da quella di Piazza Fontana a quella della stazione Bologna) e le stragi mafiose degli anni Novanta, ora i magistrati cercano ulteriori risposte. Per questo, stanno vagliando la sempre più concreta ipotesi che la strategia mafiosa di attacco allo Stato, al fine di intimidirlo e indurlo a trattare, possa essere stata “battezzata” proprio dalla strage del Rapido 904, nonché la pista che conduce alla “zona grigia” dei rapporti tra criminalità organizzata e apparati deviati delle istituzioni.

L’attentato e le indagini

L’ordigno che provocò l’esplosione venne posto all’interno del convoglio in occasione della sosta del mezzo presso la stazione di Firenze. Una viaggiatrice sopravvissuta, Rosaria Gallinaro, fece successivamente riferimento davanti agli inquirenti a un uomo, salito sul treno alla stazione Santa Maria Novella, concentrato a sistemare due borsoni sulla griglia portapacchi del corridoio, nonostante ci fosse spazio negli scompartimenti dei vagoni. La detonazione fu prodotta da una carica di esplosivo radiocomandata, situata sopra una griglia portabagagli nel corridoio della carrozza di seconda classe numero 9, proprio al centro del treno. Per innescarlo gli attentatori attesero che il convoglio penetrasse all’interno della Grande Galleria dell’Appennino, in modo tale da amplificare gli effetti del disastro.

Le indagini sfociarono nell’arresto di alcuni uomini del clan napoletano Misso, di cui gli inquirenti rinvennero un arsenale, e in quello del boss Pippo Calò – una delle figure più controverse di Cosa Nostra, anello di congiunzione tra mafia, P2, banda della Magliana e Vaticano – e del suo collaboratore Guido Cercola, dei quali venne perquisito il covo romano. Qui fu trovato materiale esplosivo ed elettronico compatibile con quello utilizzato per l’attentato. Nell’inchiesta venne implicato anche il deputato del MSI Massimo Abbatangelo, accusato di aver fornito l’esplosivo usato per la consumazione della strage. Nel gennaio 1986, il magistrato Pier Luigi Vigna chiese il rinvio a giudizio di Calò, Cercola, Fedrico Schaudinn (tecnico tedesco ritenuto l’artificiere dell’attentato) e altri esponenti dei gruppi romano e napoletano, nonché di Abbatangelo, ipotizzando che la strage fosse il risultato di un intreccio di tra mafia, Camorra, Banda della Magliana e destra eversiva, portandosi dietro l’obiettivo di “distogliere l’impegno della società civile dalla lotta contro la mafia” e produrre un “blocco del Paese sulla via della democrazia”. Nel novembre 1987, con la sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio emessa dal G.I. di Firenze, furono accolte le richieste del pm. La posizione di Abbatangelo, essendo stato quest’ultimo eletto deputato, venne stralciata dal procedimento principale.

Le verità processuali

Il 25 febbraio 1989, la Corte di Assise di Firenze inflisse l’ergastolo a Calò, Cercola e figure a loro legate, ovvero Alfonso Galeota, Giulio Pirozzi e Giuseppe Misso, comminando ventotto anni al mafioso Franco Di Agostino e venticinque a Schaudinn. In secondo grado fu confermato l’ergastolo per Calò e Cercola, mentre la pena massima fu decretata anche nei confronti di Di Agostino; 22 anni vennero inflitti a Schaudinn, mentre le altre figure alla sbarra furono assolte per strage e condannate per detenzione illegale di esplosivo. Poi, il 5 marzo 1991, la prima sezione della Corte di Cassazione, presieduta dal giudice Corrado Carnevale – storicamente noto come “L’Ammazzasentenze”, nelle cui mani Cosa Nostra avrebbe voluto far veicolare la sentenza definitiva sul Maxiprocesso di Falcone e Borsellino, non riuscendo però nell’intento – annullò la sentenza di Appello. Il 14 marzo del 1992, la Corte d’Assise di Firenze confermò tuttavia gli ergastoli per Calò e Cercola, comminando una condanna a 24 anni di carcere a Di Agostino e a 22 anni a Schaudinn e punizioni meno severe nei confronti di Misso, Galeota e Pirozzi (per cui fu confermata l’assoluzione dal reato di strage). La quinta sezione penale della Cassazione, il 24 novembre 1992, confermò questa pronuncia, riconoscendo la “matrice terroristico-mafiosa” della strage. Il 18 febbraio 1994, la Corte di Assise di Appello di Firenze condannò il parlamentare Massimo Abbatangelo a sei anni, unicamente per possesso di esplosivo.

Il 27 aprile 2011, dopo una rilettura di indagini e risultanze processuali, la DDA di Napoli emise una ordinanza di custodia cautelare a carico del capo di Cosa Nostra Salvatore Riina, accusato di essere il mandante dell’attentato del Rapido 904. Nel maggio 2013, la procura di Firenze chiese e ottenne per lui il rinvio a giudizio. Assolto in primo grado nel 2015, il boss morì il 17 novembre 2017, mentre era in corso il processo di appello. Della vicenda del Rapido 904 si è occupata anche la Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia. Nel dicembre 1995, la relazione Pellegrino ha infatti ufficialmente messo in discussione la lettura che vede come matrice della strage esclusivamente quella mafiosa, parlando di “una zona grigia caratterizzata da rapporti incrociati tra mafia, servizi segreti, criminalità politica e comune, il cui ruolo appare ormai innegabile”.

Un nuovo impulso

Ora, a pochi mesi di distanza dalle commemorazioni per il quarantennale della strage, la partita vive il suo terzo tempo. La procura distrettuale antimafia di Firenze, rappresentata dai pm Luca Tescaroli e Luca Turco, ha infatti aperto un nuovo fascicolo in cui si mira a fare luce sulle complicità esterne a Cosa Nostra in una stagione stragista che vedrebbe il suo inizio proprio con l’attentato al Rapido 904 e, successivamente, una prosecuzione nelle stragi del 1992-1993, fino al fallito attentato allo Stadio Olimpico del 23 gennaio 1994. Secondo gli inquirenti, infatti, è necessario approfondire la “posizione di soggetti all’epoca non coinvolti nel processo celebratosi a Firenze”. La tesi è infatti che già alla fine del 1984, Cosa Nostra – al cui vertice, dopo la vittoria della Seconda guerra di mafia, si era appena insediato Riina – si sarebbe sentita minacciata dalle rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta e dai mandati di cattura emessi dal pool antimafia in vista del Maxiprocesso, decidendo dunque di attaccare lo Stato “nel continente” per costringerlo a scendere a compromessi. La bomba utilizzata per la “strage di Natale” avrebbe avuto infatti una serie di componenti, tra cui il Semptex, provenienti dagli arsenali di mafia di contrada Giambascio e di San Giuseppe Jato e utilizzati anche nelle stragi mafiose degli anni Novanta. Ci sarebbero poi importanti analogie tra i telecomandi “Telcoma System” usati sia per la strage del Rapido 904 che per quella di Via D’Amelio del 19 luglio 1992. Sulla base di altri spunti investigativi dati dall’esame dell’esplosivo, la DDA di Firenze si sta anche concentrando su una serie di altri fatti avvenuti nel capoluogo toscano nel medesimo periodo, tra cui un attentato effettuato contro un ufficio postale in via Carlo D’Angiò il 13 agosto 1985 e l’esplosione che distrusse una palazzina in via Toscanini il 5 novembre del 1987, non provocando vittime.

Davanti agli inquirenti, il pentito Giovanni Brusca – che fu peraltro il primo, alla fine degli anni Novanta, a parlare della “Trattativa Stato-mafia” – ha sostenuto che la finalità della “strage di Natale” fu quella di «distogliere l’attenzione dal Maxiprocesso e dalle indagini che stavano facendo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quindi creare una strategia d’azione verso l’Italia, al nord, per distogliere l’attenzione dal sud e poter fare “i nostri interessi”». Il collaboratore di giustizia, inoltre, ha dichiarato che dietro l’attentato potesse esserci «la mano di Antonino Madonia», boss palermitano alleato dei corleonesi di Riina e intensamente legato a membri della destra eversiva e a personaggi delle istituzioni deviate. Quegli stessi ambienti su cui la Procura di Firenze sta indagando per individuare i presunti – ma sempre più probabili – mandanti esterni delle stragi del 1993.

[di Stefano Baudino]

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