Prima un pugno. Poi il detenuto, incappucciato con la federa di un cuscino in mezzo a un gruppo di uomini in divisa, viene sgambettato e fatto cadere. Sono le sequenze iniziali del video girato nel carcere di Reggio Emilia il 3 aprile scorso, che testimonia le torture subite da un uomo di origini tunisine da parte di dieci agenti penitenziari. Anche mentre è a terra, immobilizzato da diversi poliziotti, viene colpito. Schiaffi, pugni sul volto e sul costato. Poi gli strappano vestiti, pantaloni e mutande, lo sollevano semi nudo e lo gettato di peso in una cella di isolamento, picchiandolo nuovamente e lasciandolo lì per più di un’ora nonostante le grida e le richieste di aiuto. Secondo quanto ricostruito, a quel punto che dalla disperazione il detenuto avrebbe rotto il lavandino della cella per cercare di attirare l’attenzione tagliandosi con i cocci; nel video si vedono le immagini del pavimento davanti alla cella che si allaga di sangue. Dopo tempo, è stato soccorso da un medico e da un altro detenuto. Il sostituto procuratore, Maria Rita Pantani, ha chiesto il rinvio a giudizio per 10 agenti di polizia penitenziaria. L’udienza preliminare è il 14 marzo. Nel frattempo otto di loro restano sospesi dal servizio, accusati di tortura, lesioni e falso per essersi inventati che l’uomo li aveva aggrediti con una lametta.
«È stato un lungo momento di terrore puro, in cui ho pensato che non avrebbero mai smesso», aveva raccontato la vittima nella denuncia alla procura. «Devo ammettere che nonostante credo sia giusto denunciare quello che è successo, ho molta paura che possa risuccedere, anche perché quello che è successo quel giorno e quello che ho provato non lo dimenticherò mai. In queste notti non riesco a dormire perché ripenso a quanta paura ho avuto di morire e a tutta quella forza e violenza che è stata usata nei miei confronti mentre ero a terra e ammanettato», ha continuato. «Sono consapevole dei rischi che posso correre denunciando tutto questo proprio mentre sono nello stesso carcere, ma non è giusto quello che è successo».
Il video è stato reso pubblico due giorni fa e ha fatto il giro del web e dei social. Perfino il ministro Piantedosi è stato obbligato a dire qualcosa sotto la pressione dei cronisti . «È ovvio che non sono cose accettabili», ha detto ai cronisti, sottolineando comunque che «tutto deve essere accertato nelle sedi competenti, e quindi dare giudizi molto netti preventivamente è sempre qualcosa che deve avere un certo riguardo». Anche se il video parla da solo. Il ministro della giustizia Nordio, anche lui alle strette, ha parlato di «immagini indegne per uno stato democratico».
Dell’episodio del pestaggio tutti sapevano da mesi, su L’Indipendente ne avevamo parlato già il 15 luglio 2023. La questione torna a fare notizia oggi perché è stato diffuso il video del pestaggio che, come spesso accade, è riuscito a far parlare della vicenda le televisioni e quindi la politica. Sembra che come succede spesso, solo la mediatizzazione dei video ormai riesce a creare quell’empatia e quell’ondata di indignazione che – se in alcuni casi spinge alla rivolta, come gli omicidi in diretta del giovane Nahel in Francia o di George Floyd negli Stati Uniti da parte di genti di polizia– in Italia sta obbligando almeno a parlare delle continue violenze e degli abusi che avvengono nelle carceri. I casi di tortura nelle patrie galere infatti paiono ormai una consuetudine, e sono sempre più numerose le inchieste contro agenti della polizia penitenziaria per abusi d’ufficio, pestaggi, violenze, e torture. Senza contare che la maggior parte dei casi di violenza non escono dalle cinta murarie delle prigioni: denunciare i propri secondini per torture subite non è facile, dato l’alto rischio di ripercussioni sulla propria persona e le spesso scarse possibilità di vincere il processo contro agenti di polizia.
La mediatizzazione però, ha forse una doppia faccia: mostrare quello che accade all’interno delle prigioni è molto importante, ma è altrettanto importante che il video-denuncia porti a qualche conseguenza rilevante, come per esempio le dimissioni del direttore del carcere. Altrimenti, il rischio è di abituarsi e di normalizzare la violenza istituzionalizzata all’interno delle patrie galere, come i continui video di violenze sui reclusi nei Centri per il Rimpatrio stanno in parte dimostrando. Alcuni dei casi più eclatanti di violenza e torture sono già archiviati, e riempiono altre pagine nere nel già oscuro libro delle carceri italiane: i morti e le torture subite dai detenuti del carcere di Modena l’8 marzo 2020, i morti di Rieti, di Bologna. Della durissima repressione nelle galere del marzo 2020 solo le botte e i pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere arriveranno forse un domani a processo, grazie ai video di testimonianza. Altrimenti, anche quell’episodio probabilmente sarebbe stato archiviato.
«Ogni volta che una persona è ristretta, sotto la vigilanza di organi dello Stato, deve essere assicurata la dignità della persona in modo duplice rispetto alle normali condizioni». Lo ha detto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, a margine di una visita a Imola, rispondendo a una domanda sul video del pestaggio. Se così fosse, il ministro dovrebbe spiegare perché dall’inizio dell’anno nelle strutture carcerarie italiane sono già morte 36 persone, e di queste 17 si sono tolte la vita. O perché ancora non é stato abolito il carcere ostativo e il 41bis, regime carcerario classificato come tortura dalla Commissione Europea dei diritti dell’uomo. O come sia possibile che invece di concedere più misure alternative alla detenzione, nell’ultimo anno il numero dei detenuti in carcere in Italia sia cresciuto molto, arrivando quasi a 60.000 reclusi, mentre il sovraffollamento è arrivato al 115%. In Emilia-Romagna i detenuti sono 3.603 (dati al 31 gennaio), per soli 2.979 posti.
[di Monica Cillerai]
Il numero dei reclusi negli ultimi anni e’ diminuito, e quello delle guardie carcerarie aumentato: pene “alternative” significa obbligo di firma mentre durante il giorno si e’ liberi di fare quel che si vuole?, oppure piantare piante nei giardinetti? Il carcere deve essere una PENA, non un collegio rieducativo.
A quando un articolo che dia voce alle vittime (quelle vere, non chi ha delitto)?
Il 41 bis è un regime carcerario studiato apposta per i mafiosi, non deve essere abolito!
Casomai bisogna evitare di farlo applicare indiscriminatamente, questo sì.