Masafer Yatta è il nome con cui viene chiamata la zona collinare al sud di Hebron, dove vivono 2800 persone dislocate in 12 villaggi. Colline a macchie verdi, che si fanno sempre più rade arrivando al limitare del deserto, fino al muro di montagne che segna il confine con la Giordania, contraddistinguono questa parte della Valle del Giordano. Gli occhi si perdono in questo orizzonte infinito, che si interrompe però, quando sulle cime delle colline, iniziano le barriere di filo spinato e le case perfettamente tenute che vi si nascondono dietro: le colonie.
A seguito degli accordi di Oslo del 1993, Masafer Yatta è parte della zona C, come sono denominati i territori palestinesi rimasti sotto il controllo amministrativo e militare di Israele e che in base agli accordi stessi sarebbero dovuti diventare territorio dello Stato di Palestina entro cinque anni. Ma ne sono passati più di 30 e ancora i palestinesi che li abitano sono sotto l’occupazione israeliana. La zona C ancora oggi che ricopre il 60% della Cisgiordania. Nei primi anni ’80 l’intera area è stata dichiarata zona di addestramento militare Firing Zone 918. Tale destinazione d’uso è servita però a favorire l’espansione degli insediamenti israeliani. Le colonie, considerate illegali dal diritto internazionale, si ingrandiscono a discapito dei villaggi e delle terre palestinesi. I modi in cui avviene questo esproprio forzato vanno dai centinaia di ordini di demolizioni emessi dall’amministrazione israeliana nei confronti delle abitazioni palestinesi, al controllo del movimento della popolazione, spesso impossibilità a percorre certe strade perché bloccate dall’esercito di occupazione, fino ad arrivare all’azione diretta dei coloni che minacciano, picchiano e uccidono portando all’esasperazione, se non alla morte, gli abitanti palestinesi. Tutto questo però non accade da quando il 7 ottobre i miliziani di Hamas hanno attaccato il sud di Israele, ma accade in maniera regolare e sistematica da più di 70 anni.
«Dal 7 ottobre le cose sono peggiorate, ma sono sempre le stesse che subivamo anche prima», dice Sami, giovane attivista palestinese di 27 anni del movimento Youth of Sumud. Nel villaggio di At-Tuwani, dove Sami vive, dal 7 ottobre i coloni si vedono più spesso «da quando hanno dichiarato lo stato di guerra, i coloni hanno più potere. Il principale obbiettivo è prendere vantaggio da questa situazione per appropriarsi di più terra possibile». Dall’inizio della guerra i coloni hanno preso possesso dei campi coltivati a qualche decina di metri dalla casa di Sami e hanno appeso una bandiera israeliana sull’albero in cima alla collina di fianco alla guesthouse di At Tuwani. «Dall’inizio della guerra hanno incominciato – i coloni – a ricevere materiale militare» dice Sami che sostiene che negli ultimi tre mesi «il 70% delle volte gli attacchi dei coloni avvengono con armi da fuoco». Il governo israeliano infatti allo scoppio della guerra ha inviato migliaia di fucili d’assalto in Cisgiordania armando i coloni, per difendersi dai possibili attacchi dei gruppi armati palestinesi. I numeri però sembrano raccontare un uso delle armi più per attaccare che per difendersi. I morti palestinesi per mano di soldati o coloni in Cisgiordania sono stati 507 nel 2023, la cifra più alta dal 2005, di cui 100 bambini sotto i 18 anni, come riporta l’Ufficio delle Nazioni unite per gli affari umanitari (Ocha). Nel 2023 sono stati registrati più di 1.200 attacchi da parte dei coloni a persone o proprietà palestinesi, dal 7 ottobre si contano in media 4 attacchi al giorno.
Dall’inizio della guerra, le requisizioni di terre da parte dei coloni hanno creato anche un problema di carattere economico. «Principalmente siamo pastori e coltivatori e quando ci impedisco l’uso della terra per coltivare e per far pascolare gli animali, vuol dire anche privare le famiglie di una grande quantità di entrate economiche» racconta Sami. Anche il 37enne Ahmed (nome di finzione), abitante di un villaggio vicino ad At-Tuwani, racconta che le cose stanno peggiorando di ora in ora «già prima del 7 ottobre – la situazione – era disastrosa, ma dopo è diventato tutto più pericoloso e difficile». Il villaggio di Ahmed, come molti della zona, è a ridosso di una colonia israeliana che ha il suo cancello di ingresso alla fine della strada di entrata al villaggio. «Hanno creato un nuovo confine, togliendoci altra terra» dice Ahmed, che indica i campi coltivati e la serra costruita con l’aiuto di attivisti internazionali «Tutta questa terra è della mia famiglia, ma adesso non ci possiamo avvicinare. Questo vuol dire non poter raccogliere quello che abbiamo coltivato: le famiglie perdono le loro entrate». Ma non solo campi e greggi non possono essere lavorati, infatti i molti palestinesi che vanno regolarmente in Israele per lavorare, con l’entrata in vigore dello stato di guerra, si sono visti ritirare i permessi di lavoro «Per 4 mesi le persone non sono potute andare a lavorare e ancora adesso non guadagnano soldi, se dovesse continuare così per altri 3 mesi non se riusciremmo a sopravvivere». Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro prima del 7 ottobre erano impiegati in Israele 193mila palestinesi, con lo scoppio della guerra però il governo di Tel Aviv ha ritirato 130mila permessi di lavoro ai residenti in Cisgiordania. Una crisi che colpisce anche Israele, sopratutto nel reparto dell’edilizia. In questi giorni infatti si parla di un arrivo massiccio di manodopera dall’India per sostituire i lavoratori palestinesi in Israele.
Mentre stiamo parlando con Ahmed, dal grande cancello giallo che segna l’entrata alla colonia escono due uomini più simili a militari che a civili quali sono. Armati di mitra si avvicinano alla serra, dove due giovani ragazzi di 15 e 17 anni stanno raccogliendo quel che rimane dei pomodori lasciati lì per settimane e quasi tutti marci, Ahmed li raggiunge. Tutto il villaggio guarda la scena dalla strada in un misto di curiosità e paura, fino a che i due giovani palestinesi escono dalla serra insieme ad Ahmed e i due coloni. «Sono venuti a controllare e a ricordarci che quella adesso è la loro terra e che non possiamo lavorarci», dice Ahmed con un sorriso.
Un sorriso che da l’idea dell’abitudine all’oppressione. Un’abitudine che si vede anche nei giovani come Alaa, attivista per i diritti umani di 24 anni, che, con occhi persi, racconta: «sono un fisioterapista e ho uno studio a Yatta e dato che dal 7 ottobre hanno chiuso le entrate alla città non il diritto di andare al lavoro». Ma Alaa vuole essere chiaro sul fatto che lo scoppio della guerra e quello che è successo il 7 ottobre in Israele sono solo l’ultima goccia, «Tutti parlano di quello che sta succedendo connettendolo al 7 ottobre, ma qua si parla di 75 anni ai quali si aggiungono questi 100 giorni di massacro a Gaza. Mi fa arrabbiare e mi intristisce l’ipocrisia del mondo» e continua «non ho più fiducia nell’umanità, succedono tutte queste cose e nessuno prova a fermarle. Come palestinese non posso avere sogni e speranze: i nostri sogni sono sogni e quello rimangono, nulla cambia».
Ma nonostante la condizione al limite della sopravvivenza; nonostante, come dice Sami, «Masafer Yatta è una delle aree più sotto la pressione dei coloni della Giordan Valley» e nonostante dall’inizio della guerra in tutta la Cisgiordania più di 1500 persone, di cui più di 700 bambini, sono state costrette ad abbandonare le proprie case a seguito delle minacce e dei molti morti, la resistenza al sud di Hebron è non violenta. Sami, il cui padre è stato uno dei fondatori del movimento di resistenza non violenta a Masafer Yatta, pensa che «usare la violenza da la possibilità di rispondere con la violenza, è quello che vediamo con Gaza». Perciò da anni su queste colline si resiste all’occupazione rimanendo fermi, non spostandosi quando abbattono le case; non spostandosi quando le strade vengono chiuse senza motivo; non spostandosi quando le famiglie vengono minacciate e vessate. Una resistenza non violenta che si fonda su un lavoro fianco a fianco con diverse associazioni israeliane contro la guerra e l’occupazione, come il Center for jewish nonviolence o Breacking the silent, e sulla presenza e aiuto di attivisti internazionali.
Quando a Sami si chiede se pensa che ci sarà una nuova Nakba (catastrofe in arabo) la risposta è semplice quanto dolorosa: «C’è da aspettarselo, a Gaza è già cominciata e quello che stiamo vivendo qua è già una Nakba» ma poi con un sorriso serio conclude «Noi rimaniamo qui come hanno fatto mia nonna e mio padre, resisteremo fino all’ultimo respiro».
[di Filippo Zingone]