domenica 22 Dicembre 2024

La fortuna della poesia

La poesia, i libri di poesia hanno oggi una certa fortuna. Sembra che non soltanto si sia aperto un nuovo continente dell’immaginazione ma che la forma estetica, percepibile del linguaggio poetico abbia conquistato la sua voce alternativa, rispetto ai media, ai discorsi comuni, al dominio assoluto dei segnali visivi. Ma c’è una speciale visibilità anche della poesia. Emily Dickinson scriveva (era il 1862) che il poeta è un “discloser of pictures”, un rivelatore di immagini. Trent’anni prima di lei, Giacomo Leopardi suggeriva di accostare alle sensazioni effettive, ragionevoli un altro livello di realtà per godere di una stratificazione di visioni possibili.

In effetti si tratta di liberare dagli automatismi l’osservazione di ciò che esiste e di ciò che accade, e affidarle una verità sospesa, di descrivere in un modo artistico, musicale, quasi di cantare sensazioni, quelle che poi davvero ispirano e guidano la composizione anche di una canzone, animata da quegli spiriti e da quei sospiri che muovevano i poeti del Dolce Stil Novo ai tempi di Dante.

La poesia dunque si presenta come uno sguardo altro, come un’eco ipersensoriale. Prendiamo una pagina degli appunti di Marguerite Yourcenar, l’autrice delle splendide Memorie di Adriano . “Hanno tagliato il ramo di pino mezzo secco che per quattro anni ho visto dondolare contro un muro di mattoni rossi. Quel legno, quella resina, quelle scaglie di corteccia, quegli aghi sottili scomparsi, si delineano nella mia memoria con la precisione netta di un disegno di Hokusai. Oggetto qualunque… dotato dalla mia attenzione di una sorta di durata spirituale… Che vuoi provare con questo? Nulla, soltanto che esistono ordini differenti di realtà” (Pellegrina e straniera, trad. Einaudi 1990, p. 161).

Gli esempi sono innumerevoli, si può andare nei ricordi, nelle canzoni, nelle aperture di libro.

Umberto Saba, 1910, mette in versi le sorti di prostitute e marinai: “qui degli umili sento in compagnia/il mio pensiero farsi/più puro dove più turpe è la via”, versi e immagini da cui poi De André ricaverà ispirazione. 

Shakespeare in un suo sonetto declama che nessun monumento di marmo riuscirà a vivere oltre “this powerful rhyme”, oltre questi versi potenti. Cesare Pavese in una poesia, Civiltà antica, offre a un sensibile paroliere questi versi che sono già musicali: “L’uomo siede nell’ombra, che cade dall’alto/ di una casa, più fresca che un’ombra di nube,/ e non guarda ma tocca i suoi ciottoli assorto”.

Emily Dickinson dipinge una donna, nel movimento mentale tra campagna e città. “Sono più miti le mattine/ e più scure diventano le noci,/ e le bacche hanno un viso più rotondo, / la rosa non è più nella città./ L’acero indossa una sciarpa più gaia/ e la campagna una gonna scarlatta./ Ed anch’io, per non essere antiquata,/ mi metterò un gioiello”.

La poesia risponde forse all’esigenza di credere ad altro, non a quello che sentiamo dire, non a quello che ci si vuole far credere, non alle questioni di ordinaria amministrazione, non vuole rispondere a chi ci provoca, non pretende di avere ragione. Si prende quel diritto sottile, leggero ma potente di celebrare una possibilità, un’alternativa, di incrociare ragione e fantasia. 

Esercitare anche, da parte di chi scrive poesia, una paternità immaginaria, il sentimento di una creazione che suscita altre immagini, altri segni differenti da quelli progettati. La poesia allora come una forma di libertà che attende impaziente i suoi tempi e anche le sue musiche. Ma che ha già un suo microcosmo, un suo continente di appartenenze.

[di Gianpaolo Caprettini]

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