martedì 5 Novembre 2024

In Congo è iniziata la cacciata delle truppe ONU

Mercoledì 28 febbraio è iniziato il ritiro dei caschi blu – i militari delle forze internazionali di pace delle Nazioni Unite – dalla provincia del Sud Kivu nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), così come richiesto dallo stesso Governo di Kinshasa. L’annuncio arriva dopo forti pressioni da parte della RDC, ed è in linea con quanto dichiarato nella risoluzione ONU condivisa il 19 dicembre, in cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha dichiarato che la smobilitazione sarebbe avvenuta «entro la fine di aprile 2024», e avrebbe interessato la sola area del Sud Kivu. La RDC è da anni teatro di scontri portati avanti da numerose milizie armate, motivo per cui da venticinque anni è attiva la missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo (MONUSCO). Kinshasa, tuttavia, ritiene che la forza delle Nazioni Unite sia inefficace nel proteggere i civili dai gruppi armati e dalle milizie che affliggono il Paese da ormai trent’anni, e per questo motivo chiede da anni l’abbandono del territorio da parte delle truppe ONU, richiesta che a metà febbraio è confluita in forti movimenti di protesta che hanno colpito le ambasciate di vari Paesi occidentali.

L’avvio della smobilitazione ONU è arrivato durante una cerimonia ufficiale presso la base di Kamanyola, vicino ai confini tra Ruanda e Burundi, nel corso della quale le bandiere delle Nazioni Unite e del Pakistan, Paese di origine delle forze di pace incaricate presenti nella base, sono state sostituite da quelle della RDC. A oggi la forza delle Nazioni Unite schiera 15.051 truppe e 2.636 civili nelle tre province orientali di Ituri, Sud Kivu e Nord Kivu. Con la consegna della base di Kamanyola inizia così il piano di disimpegno che gradualmente dovrebbe riconsegnare nelle mani di Kinshasa la gestione della sicurezza interna del Paese, iniziando dalla provincia del Sud Kivu. Il piano è diviso in tre «distinte e successive fasi» accompagnate da valutazioni periodiche sul loro completamento: durante la prima i caschi blu abbandoneranno il territorio del Sud Kivu, che sono tenuti a lasciare entro la fine di aprile, mentre entro il 30 giugno toccherà la stessa sorte al personale civile. Il resto delle truppe presenti in Nord Kivu e Ituri verrà infine ridotto di circa un terzo del totale, per arrivare a 11.500 militari, 600 osservatori, e 1.713 persone tra unità e membri della polizia a partire dal 1 luglio.

La Repubblica Democratica del Congo chiede il ritiro delle truppe ONU da anni; queste sono attive sul territorio dal 1999, quando fu attivata la missione MONUC (missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo), poi convertita in MONUSCO nel 2010. Da ormai decenni, le aree di Ituri, Sud Kivu e Nord Kivu sono infatti sede di scontri con milizie armate e gruppi jihadisti che hanno causato centinaia di migliaia di vittime e quasi 7 milioni di sfollati interni. Nonostante le insistenti richieste di Kinshasa, il mandato della missione MONUSCO è stato rinnovato fino a dicembre 2024. La cerimonia tenutasi mercoledì è un significativo passo avanti nella smobilitazione delle truppe ONU, ma la riproposizione del mandato e la persistente presenza dei caschi blu nelle altre due provincie del Congo orientale confermano la preoccupazione dell’ONU e la sua volontà di prendere tempo e rimanere nel territorio, geopoliticamente molto rilevante a causa delle risorse di cui è fornito.

Tanto le preoccupazioni dell’ONU, quanto l’inefficienza dei caschi blu nel contrastare gli episodi di violenza, hanno trovato conferma a inizio febbraio, quando il principale gruppo ribelle attivo nel Paese, il Movimento del 23 Marzo (M23), ha preso il controllo di alcuni villaggi nei pressi di Goma, città principale del Nord Kivu dove vivono circa 1 milione di persone. È anche per questo motivo che a metà mese le richieste di Kinshasa si sono fatte più forti, portando a intensi movimenti di protesta nel corso di cui sono state assaltate le ambasciate di Francia, USA e Gran Bretagna. Le proteste sono alimentate da un generale sentimento anti-occidentale dovuto anche a motivazioni storiche, relative tra le altre cose allo sfruttamento delle risorse del territorio. L’allontanamento africano dall’Occidente è un sentimento via via sempre più presente, che si manifesta in vari Paesi e in molteplici forme, non sempre necessariamente ostili agli Stati occidentali. A tal proposito basti pensare alla sempre più intensa idea di Panafricanismo che sta coinvolgendo numerosi Paesi dell’Africa, ma anche alle richieste di risarcimento che gli ex Stati colonizzati portano avanti nei confronti delle vecchie potenze coloniali. Nelle sue forme più marcatamente ostili, invece, l’anti-occidentalismo sta colpendo alcuni dei Paesi del Sahel, e nello specifico in maggior misura le giunte golpiste di Mali, Niger e Burkina Faso, che stanno invece avvicinandosi sempre di più alla Russia.

[di Dario Lucisano]

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