Il 29 gennaio scorso le autorità italiane hanno arrestato il 37enne palestinese Anan Yaneesh, che al momento si trova nel carcere di massima sicurezza di Terni in attesa di essere estradato in Israele, come richiesto da quest’ultimo. Anan è originario della città di Tulkarem, in Cisgiordania, e nel corso degli anni ha condotto la propria attività politica all’interno del contesto della Seconda Intifada. Ha scontato oltre 4 anni nelle carceri dell’occupazione e subìto un agguato delle forze speciali israeliane nel 2006, durante il quale ha riportato gravi ferite per i colpi a lui inferti. Nel 2013 ha lasciato la Palestina e dal 2017 vive in Italia, a L’Aquila, con regolare permesso di soggiorno per protezione speciale. Nel 2023 si è recato in Giordania, dove è stato rapito dai servizi di sicurezza del Paese, probabilmente allo scopo di consegnarlo alle autorità israeliane. Solo la pressione dell’opinione pubblica giordana ha convinto le autorità a rilasciarlo. Una volta rientrato in Italia, è stato arrestato a seguito di un mandato di cattura italo-israeliano. Le accuse contro di lui sono poco chiare e confuse: nel fascicolo, incompleto, si accusa l’uomo di aver finanziato la “brigata di autodifesa di Tulkarem” e il suo campo profughi, di circa 100 mila abitanti.
Come spiegato a L’Indipendente da Flavio Rossi Albertini, legale di Anan, il diritto internazionale riconosce la prerogativa a resistere contro un’occupazione militare, e il territorio della Cisgiordania è occupato dal 1967. La brigata Tulkarem mette in atto «azioni paragonabili a quelle dei nostri partigiani», spiega il legale, in quanto compie attività di autodifesa contro la repressione dei militari israeliani nella regione. «E’ un’attività tutta rivolta contro le incursioni dell’esercito», motivo per il quale «per le notizie di cui dispone attualmente la difesa, non agendo contro civili, per il diritto internazionale questo non costituisce reato». Non ci sarebbero quindi le basi giuridiche per incriminare Anan in Italia per quei fatti e, di conseguenza, nessun motivo per assecondare le richieste israeliane, «perché nel nostro ordinamento giuridico interno non costituiscono reato e quindi non è possibile consegnarlo». La sua estradizione costituirebbe inoltre un pesante precedente, che metterebbe a rischio tutti i palestinesi sul suolo italiano.
È stato il ministro della giustizia a promuoverne l’arresto. «Da un punto di vista governativo, si ritiene di poter politicamente quanto meno aderire alla richiesta d’Israele, e francamente il periodo storico per quello che conosciamo desta più che una perplessità», dice ancora Albertini parlando della scelta del ministro Nordio di concedere l’estradizione, che per di più avverrà in un momento in cui in Palestina è in corso la feroce azione militare israeliana. L’aggressione portata avanti da Israele contro Gaza e la Cisgiordania è arrivata infatti a contare più di 30mila morti, dei quali 12mila bambini, oltre che migliaia di persone ferite e con mutilazioni permanenti. L’assedio sta inoltre sfinendo la popolazione di quello che viene chiamato il carcere a cielo aperto più grande del mondo, ovvero la Striscia di Gaza. Il numero di arresti è esploso dal 7 ottobre e i detenuti nelle prigioni hanno superato le 10 mila unità.
«Riteniamo che il soggetto potrebbe rischiare trattamenti inumani e degradanti, torture, se non addirittura l’omicidio nelle carceri israeliane, visto che questo viene evidenziato dai rapporti di Amnesty International, di Human Rights Watch, di Francesca Albanese delle Nazioni Unite stesse» dichiara Albertini. I trattamenti riservati ai prigionieri palestinesi, infatti, sono ormai di dominio pubblico: detenzioni amministrative lunghissime, torture sistematiche dei detenuti per estorcere confessioni, umiliazioni, punizioni collettive. Un caso chiaro – oltre le numerosissime testimonianze di torture e violenze nelle prigioni – è il taglio di acqua ed elettricità, durato settimane, nelle celle israeliane dove vengono detenuti i palestinesi, una vera e propria punizione collettiva in seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre.
Il 12 marzo ci sarà un’udienza in cui verrà discussa l’istanza di revoca della misura cautelare di Anan, presentata da Flavio Rossi Albertini e Stefania Calvanese. Per gli avvocati difensori, infatti, sono presenti condizioni ostative all’estradizione nello Stato richiedente, che quindi dovrebbero far decadere la misura cautelare in carcere.
Tra i vari punti presentati, si sottolineano anche le condizioni di apartheid imposte da Israele ai palestinesi da decenni e i crimini di guerra e contro l’umanità che sta commettendo lo stato guidato da Netanyau dal 7 di ottobre, fatti per la quale Israele è chiamata a rispondere di genocidio alla Corte internazionale di giustizia all’Aja. Nella relazione si ricorda anche il regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominio da parte di un gruppo razziale rispetto a un altro, con l’intento di mantenere quel sistema. L’intero sistema giuridico israeliano è infatti basato su un dualismo discriminatorio, in base al quale i palestinesi sono sottoposti a una legislazione deteriore (quella militare) rispetto a quella che Israele applica a i propri cittadini. Per questo, secondo la difesa, non esisterebbe nemmeno l’imparzialità fondamentale per garantire un processo equo e giusto. Sarà la corte d’appello di L’Aquila a decidere sul futuro di Anan. Intanto, il comitato per la liberazione del 37enne palestinese chiama a mobilitarsi per fare pressione sulla politica italiana e impedire l’estradizione.
[di Moira Amargi]