giovedì 26 Dicembre 2024

La lotta degli agricoltori locali per ripristinare il Nilo coltivando foreste alimentari

In Kenya, nel bacino del Nilo, gli agricoltori del villaggio di Sitati stanno sviluppando progetti agroforestali in sostituzione delle più diffuse monocolture di canna da zucchero. L’obiettivo è quello di rivitalizzare i terreni, diversificare le diete e i redditi e aumentare i livelli d’acqua da cui dipendono molti animali. Nascono così delle “foreste alimentari”, le quali attraggono una serie di animali selvatici – come la tartaruga nubiana a conchiglia in pericolo di estinzione – e riqualificano le zone umide e i sistemi fluviali. La tecnica, in particolare, cambia il modo con cui la comunità gestisce l’agricoltura e l’ambiente, prevedendo la consociazione tra diverse colture alimentari – come cereali, frutteti, ortaggi, tuberi – ed erbe e alberi non produttivi. Frequente, ad esempio, un mix di colture quali banana, patata dolce, ibisco, papaya, avocado, peperoncino che crescono tra alberi selvatici nativi come la quercia d’argento. Il risultato è un orto dall’aspetto cespuglioso che attrae varie specie di animali selvatici e tutela un’ecosistema tanto prezioso quanto fragile. Basti pensare che, a livello globale, l’estensione delle zone umide naturali è diminuita del 35% dal 1970 proprio a causa dello sviluppo agricolo incontrollato.

«Le foreste alimentari, oltre a fornire alle famiglie una maggiore varietà di alimenti – ha dichiarato Xavier Imondo, supervisore di uno di questi progetti agroforestali – permettono ai fiumi e le zone umide di ricaricarsi d’acqua. Acqua che, tra l’altro, è anche sicura perché non si usano prodotti chimici di sintesi». Grazie alla loro spiccata resilienza, spesso questi appezzamenti agricoli crescono infatti molto bene anche con la sola aggiunta di letame compostato. Tuttavia, in alcune zone del Kenya occidentale, dove i terreni sono diventati sterili a causa dell’uso intensivo di concimi sintetici nel corso degli anni, gli agricoltori sono costretti a ricorrere a dei fertilizzanti biologici più elaborati. Per fronteggiare i lasciti dell’agricoltura industriale, la contadina Felista Omuronji, ha ad esempio iniziato a produrre un biofertilizzante da rifiuti alimentari. La donna mescola gli scarti organici con melassa, lievito e crusca, fino ad ottenere un compost chiamato bokashi. «Quando usavo fertilizzanti sintetici – ha spiegato Omuronji – nella mia fattoria non si trovavano nemmeno le termiti, mentre ora proliferano moltissimi microorganismi del suolo. Se i fertilizzanti hanno potuto fare questo al mio terreno, immaginate cosa stanno facendo al cibo e all’ambiente dell’intera regione».

Nel bacino del Nilo, non a caso, l’agricoltura intensiva per la coltivazione della canna da zucchero ha già portato alla distruzione di molti habitat a causa dell’inquinamento da fertilizzanti chimici. La coltura, sia per sua natura che per come viene coltivata, richiede infatti dei costanti input nutritivi esterni. Tuttavia, i sedimenti arricchiti con fertilizzanti di sintesi inducono una crescita senza controllo di alghe e piante invasive che riduce il livello di ossigenazione dell’acqua, di fatto, rendendo zone umide e corpi idrici inabitabili. Un fenomeno aggravato dalla deforestazione per far posto alle monocolture, la quale determina proprio un aumento dei carichi di sedimenti che confluiscono nelle zone umide. Senza contare che il disboscamento rimuove e frammenta direttamente habitat preziosi per la fauna selvatica. La canna da zucchero assorbe inoltre elevate quantità d’acqua, al punto che diverse zone umide del Kenya e della vicina Uganda sono state letteralmente prosciugate. Nel complesso, i suoi effetti distruttivi sul suolo e sulle risorse idriche sono diventati sempre più evidenti. Così, per attutire il colpo di queste minacce, le comunità più lungimiranti hanno quindi optato per percorrere una via alternativa: collaborare con esperti al fine di ripristinare la biodiversità del bacino del Nilo senza rinunciare alla produzione agricola.

[di Simone Valeri]

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