Dall’Istat arrivano dati inaspettati e in un certo senso sorprendenti per l’economia italiana: a dispetto di una narrazione martellante e a senso unico – spesso propugnata dai sostenitori dell’austerity e del neoliberismo – che ritrae la Penisola come uno degli Stati più indebitati e più “spreconi” d’Europa, l’istituto italiano di statistica ha registrato un calo del rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo (PIL): quest’ultimo, nel 2023 è sceso al 137,3%, rispetto al 140,5% del 2022, segnando un importante -3,2% che diventa addirittura un – 18% rispetto al 155,3% del 2020. Secondo un’analisi del Sole 24 ore si tratta della diminuzione maggiore tra tutti i Paesi europei. Il dato è accompagnato anche da un ulteriore risultato positivo, ossia l’aumento al 73% della quota di debito pubblico nazionale nelle mani delle famiglie italiane, grazie al loro acquisto dei BTP (buoni del tesoro poliennali). Sebbene i media e i commentatori appartenenti all’area di centro-destra celebrino la diminuzione del rapporto debito-PIL come un “trionfo” del governo Meloni, è necessario sottolineare che, in realtà questa tendenza è in atto già da diversi anni: il primo calo significativo, infatti, si è già registrato tra il 2020 e il 2021, quando tale rapporto è passato dal 154,9% al 147,1%.
Sempre secondo il Sole 24 ore, l’Italia sarebbe l’unica nazione tra quelle del G7 “ad essere riuscita a ridurre il debito pubblico al netto della spesa per interessi negli ultimi 28 anni”: a ben guardare, negli ultimi decenni si è registrato un notevole aumento del debito soprattutto negli anni della recessione finanziaria mondiale del 2008/2009 e durante la recessione europea del 2012-2013, seguita alla crisi dei “debiti sovrani”. Andando ancora più indietro nel tempo, invece, la vera e propria esplosione del debito italiano si registra a partire dal 1981, in seguito al cosiddetto divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia: un evento che ha provocato l’impennata del debito poiché la banca centrale non garantiva più i titoli, determinando quindi un aumento dei tassi d’interesse. L’Italia risulta peraltro uno dei Paesi più virtuosi a livello europeo, e non solo, per quanto riguarda l’avanzo primario: negli ultimi 30 anni, infatti, ha sempre speso meno del totale delle entrate, al netto degli interessi sul debito. Si tratta di un dato confermato anche dall’FMI che ha una sezione dedicata agli avanzi primari registrati in rapporto al Pil per 115 Paesi del mondo dal 1990 a oggi: stilando una classifica, è emerso che l’Italia si posiziona all’undicesimo posto con un avanzo primario medio annuo dell’1,75% rispetto al PIL.
Da notare, inoltre, come la discesa del debito pubblico negli ultimi quattro anni sia avvenuta in concomitanza ad un aumento del deficit, smentendo quindi le dottrine economiche neoliberali improntate all’austerità, secondo cui per ridurre il debito pubblico, è necessario ridurre il deficit e la spesa pubblica. È facilmente constatabile del resto come, durante gli anni “lacrime e sangue” del governo Monti, in cui si è seguita la ricetta economica della “spending review” (taglio delle voci di spesa), raccomandata da Bruxelles e dai “mercati”, il debito pubblico sia aumentato, mentre il PIL si è contratto a causa del calo della domanda interna dovuto agli scarsi stimoli fiscali (aumento della spesa pubblica o riduzione delle tasse). Di contro, a partire dal 2020, a fronte di un aumento del deficit – reso necessario anche a causa della crisi sanitaria prima e di quella energetica dopo per sostenere l’economia – il debito pubblico è in calo: secondo i dati, il deficit in rapporto al pil è stato pari al -7,2% nel 2023, al -8,6% nel 2022, al -8,7% nel 2021 e al -9,4% nel 2020. Si tratta di deficit ben più alti della soglia del 3% fissata dai parametri di Maastricht. “Dal lato della domanda interna nel 2023 si è registrato, in termini di volume, un incremento del 4,7% degli investimenti fissi lordi e dell’1,2% dei consumi finali nazionali”, scrive l’Istat.
Accanto alla diminuzione del debito e alla crescita della domanda interna e del Pil (+ 0,9%), si registra anche un aumento dell’acquisto di BTP da parte delle famiglie che, sempre secondo il Sole 24 ore, a novembre scorso detenevano 382,6 miliardi di euro di BTP, ossia 123,2 miliardi in più rispetto a dodici mesi prima, pari ad un incremento del 47,5% in un anno. In questo modo, il debito pubblico non è interamente nelle mani degli investitori internazionali, segnando un’inversione di tendenza rispetto all’internazionalizzazione del debito. Secondo il centro destra e alcuni analisti, a pesare sui conti pubblici italiani è il Superbonus 110 introdotto dal governo Conte II: i dati Enea aggiornati al 31 gennaio accertano che le detrazioni maturate per i lavori conclusi a carico dello Stato ammontano complessivamente a 107,37 miliardi, in deciso aumento rispetto ai 99,7 miliardi di fine dicembre, il 70% dei quali sarà da pagare entro il 2027.
In generale, la diminuzione del rapporto debito/pil, a fronte di un aumento della spesa pubblica, non smentisce solo le teorie economiche anti-keynesiane improntate sull’austerità, ma anche quella narrazione per cui l’Italia è un Paese irresponsabile non in grado di gestire i suoi conti pubblici, contrariamente alle presunte nazioni virtuose del nord Europa. Uno stereotipo demolito anche dai recenti scandali legati ai trucchi contabili e alla poco trasparente gestione dei conti pubblici da parte di Berlino.
[di Giorgia Audiello]
Sarebbe interessante approfondire sull’eterno dilemma, ma il debito di uno stato è estinguibile totalmente? o esistono Stati senza debito? Perchè se i titoli di Stato vengono rimessi tutti sul mercato, lo Stato per ridurre il debito deve sempre crescere a un tasso superiore a quello del debito o emettere meno titoli. Ma se i titoli emessi sono sempre la stessa quantità, lo Stato dovrebbe crescere battendo sempre il tasso d’interesse. Oggi sappiamo che la crescita non può essere infinita, detto questo cose se ne esce che gli Stati sul breve o lungo termine sono destinati a fallire?