martedì 3 Dicembre 2024

Libia: scioperi e blocchi agli impianti di gas che riforniscono l’ENI

Negli ultimi due mesi, in Libia si sono verificati diversi scioperi e blocchi negli impianti di gas legati al colosso italiano dell’energia ENI, ma proteste di questo tipo si susseguono ormai da anni e non sono legate specificamente all’azienda energetica italiana, ma al debole governo di Tripoli soggiogato dalle milizie locali e non riconosciuto dalla maggioranza della popolazione libica. Le ultime proteste sono andate in scena nel mese di febbraio, quando i membri della milizia Petroleum Facilities Guard (PFG) hanno bloccato i flussi di gas in un complesso facente capo alla compagnia “Mellitah Oil & Gas” nella città di Al-Zawiya. Si tratta di un’azienda di cui ENI detiene l’80% della produzione e il cui complesso è l’unico snodo per l’esportazione del gas libico verso la Sicilia attraverso il gasdotto Greenstream, parte del sistema di trasporto del gas controllato da ENI e inaugurato da Silvio Berlusconi e Muhammar Gheddafi nel 2004.

Gli operatori della PFG hanno chiesto l’aumento del 67% degli stipendi, il pagamento dell’assicurazione sanitaria, il risarcimento di mensilità arretrate e l’adeguamento di premi economici in linea con i dipendenti della National Oil Corporation (NOC), la compagnia petrolifera nazionale della Libia. La situazione nell’impianto di Mellitah si è risolta solo tra il 25 e il 26 febbraio, quando la PFG ha riaperto il sito, in seguito ad un incontro riservato, avvenuto a Tripoli, con il Primo Ministro, Abdul Hamid Dbeibah, che avrebbe concesso delle migliorie contrattuali. Anche l’incontro tra il capo della guardia degli impianti petroliferi, Abdul Razzaq Al-Khurmani, e il Presidente del Consiglio di Amministrazione della National Oil Corporation, Masoud Suleiman, ha contribuito a risolvere la situazione: Suleiman, infatti, fin da subito avrebbe spinto la discussione verso una strada diplomatica per «lasciare gli impianti lontani dalle tensioni». Si tratta comunque di una tra le tante proteste simili avvenute recentemente: oltre agli scioperi nel giacimento petrolifero di Al-Sharara – il più grande del Paese – già nel 2023, la popolazione aveva giudicato sconveniente per la parte libica un accordo stipulato tra la National Oil Corp. (NOC) libica e il consorzio guidato da ENI con la francese Total, l’emiratina Adnoc e la turca Tpao per lo sviluppo del giacimento onshore di Hamada, a est di Ghadames.

Il sovente blocco dei siti energetici messo in atto dalla popolazione e dagli addetti del settore è causato soprattutto dalla debolezza del Governo di Unità Nazionale (GUN) di Tripoli, guidato ora da Dbeibah: pur essendo il governo riconosciuto ufficialmente dalle Nazioni Unite e appoggiato dai Paesi occidentali, infatti, esso controlla una piccolissima parte del territorio libico, è ostaggio delle milizie e non è sostenuto dalla popolazione, bensì ritenuto illegittimo, al contrario del Governo di Stabilità Nazionale (GSN) di Bengasi presieduto da Fathi Bashagha. Come ha spiegato a L’Indipendente il regista Michelangelo Severgnini, esperto di Libia e interpellato specificamente sull’argomento, una risoluzione delle Nazioni Unite, la 2362, impone che il petrolio estratto nel Paese nordafricano possa essere venduto solo dal governo di Tripoli. Tuttavia, ciò comporta due cose: in primo luogo che il 40% del petrolio viene trafugato dalle milizie e venduto di contrabbando (tra queste milizie rientra anche la Petroleum Facilities Guard (PFG) che ha protestato a febbraio), scomparendo così dalle casse dello Stato libico, ma anche che i proventi del restante 60% che viene pagato – ad esempio quello acquistato da ENI – non vengono equamente distribuiti tra Tripoli e il governo di Bengasi che controlla la gran parte del territorio del Paese. Il tutto scatena scioperi e proteste non solo perché non rimane carburante sufficiente per la popolazione locale, dato che una buona parte sparisce e l’altra viene esportata, ma anche perché la mancata distribuzione dei proventi sul territorio impedisce gli investimenti per la sicurezza dei lavoratori e l’adeguamento dei salari. Secondo Severgnini, però, le ultime proteste sono anche «volte a spingere il premier di Tripoli, Dbeibah, a dimettersi dal suo incarico. Perché, al di là che il governo di Tripoli è un’invenzione dell’Occidente proprio per continuare a mettere le mani sul petrolio libico, è un governo così corrotto da essere completamente screditato e inviso agli occhi dei cittadini libici». Per questo, i cittadini vogliono tornare alle elezioni che però vengono continuamente rimandate dal dicembre del 2021.

La debolezza del GUN ha gettato la Libia nel caos provocando anche ripercussioni economiche: si stima, infatti, che a causa degli scioperi e dei furti di petrolio, tra il 2022 e il 2023 i guadagni derivanti dai prodotti energetici sono crollati: secondo i dati pubblicati domenica 7 gennaio 2024 dalla Banca centrale, la nazione africana ha guadagnato 99,1 miliardi di dinari (20,69 miliardi di dollari) dalle esportazioni di petrolio nel 2023 rispetto ai 105,4 miliardi di dinari nel 2022. L’estrema instabilità della Libia e le continue proteste relative agli impianti energetici sono generate fondamentalmente da un governo “fantoccio” sostenuto dagli Stati occidentali per interessi politico-economici e per controllare le risorse energetiche. La popolazione chiede a gran voce di tornare al voto, cosa impedita però dai sostenitori del governo di Tripoli perché consapevoli della probabile vittoria di Saif al-Islam Gheddafi che lavorerebbe per emancipare la Libia e le sue risorse di idrocarburi dal controllo di Stati e compagnie energetiche straniere.

[di Giorgia Audiello]

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