venerdì 15 Novembre 2024

ENI ha annunciato che intende aumentare ulteriormente le trivellazioni petrolifere

La multinazionale petrolifera italiana ENI ha reso noto il proprio piano di sviluppo industriale per gli anni a venire. In particolare, il Cane a sei zampe prevede di aumentare di molto il denaro circolante nell’azienda, fino a 62 miliardi di euro nell’arco del piano quadriennale. Di conseguenza, prevede anche di aumentare, ancora, i propri introiti. In tutto questo e in barba alla tanto decantata transizione energetica, l’elemento centrale resterà l’esplorazione e produzione di combustibili fossili. «La produzione upstream (l’insieme dei processi operativi da cui ha origine l’attività di produzione fossile) – si legge nel documento – è prevista crescere a un tasso medio annuo del 3-4% fino al 2027, estendendo tale crescita di un ulteriore anno rispetto al Piano precedente». Insomma, di nuovo, una strategia industriale in netto contrasto con gli impegni presi dall’Italia e dalla stessa azienda di Stato per il contenimento delle emissioni, almeno secondo la logica, mentre da ENI annunciano che, in ogni caso, «gli obiettivi di riduzione delle emissioni sono confermati». Anche se non è dato sapere come si intenda rispettarli aumentando le trivellazioni.

La multinazionale petrolifera ribadisce che tutti gli obiettivi di riduzione delle emissioni rimangono in vigore: « – 5% entro il 2030, – 80% entro il 2040 ed emissioni zero entro il 2050». Come pensano di farlo? Non è specificato, ma tutto porta a pensare che si provvederà a procedere con maggiore decisione verso i progetti di compensazione e cattura dell’anidride carbonica. Iniziative tanto care all’industria fossile, in quanto capaci di generare nuovi utili, ma dall’efficacia talmente controversa da essere accusate di essere utili solo a prolungare la vita del settore fossile. Ad esempio, le tecnologie di cattura e stoccaggio del carbonio sono ancora in gran parte in fase di prototipo. Ciò significa che non sono disponibili per l’utilizzo commerciale su larga scala. I sostenitori credono comunque che la diffusione di queste tecnologie permetterebbe una decarbonizzazione efficace dei sistemi economici, mentre gli scettici ritengono che farvi eccessivo affidamento sia poco saggio e, soprattutto, che ci distragga dal più importante obiettivo di diminuire le emissioni future. Ad ogni modo, a detta delle organizzazioni Greenpeace Italia, ReCommon e Reclaim Finance, che hanno realizzato un’analisi della strategia climatica del Cane a sei zampe, «ENI, da qui al 2027, prevede di aumentare la produzione di petrolio e gas e di mantenerla costante fino al 2030. Così facendo, la sua produzione sarà superiore di ben il 71% rispetto allo scenario emissioni nette zero».

Nessuno ha mai preteso che la produzione di gas e petrolio si arrestasse da un giorno all’altro, ma quantomeno ci si aspettava che i principali attori dell’industria fossile iniziassero una reale transizione a modelli energetici più coerenti con la crisi ecologica. Invece, così non è stato. Basti pensare che per ENI restano ancora del tutto marginali le attività sull’energia pulita: «per ogni euro investito dall’azienda in combustibili fossili – hanno spiegato gli ambientalisti – meno di sette centesimi sono stati investiti in energie rinnovabili». Mentre, al contrario, è cresciuto di molto il sostegno al gas naturale liquefatto (GNL), nonostante il picco europeo della domanda per questo combustibile fossile sia atteso nel 2025. Anche alla luce di tale incoerenza, ENI in questi giorni è tenuta a rispondere delle proprie decisioni davanti alla giustizia italiana. Il Cane a sei zampe è stato infatti citato in tribunale lo scorso maggio da 12 cittadini e dalle organizzazioni Greenpeace Italia e ReCommon. Le accuse si fondano sui «danni cagionati e futuri derivanti dai cambiamenti climatici, a cui l’azienda ha contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, continuando a investire nei combustibili fossili». L’obiettivo delle organizzazioni è quello di imporre ad ENI una profonda revisione della sua strategia industriale. I ricorrenti sperano così di indurre una concreta riduzione delle emissioni climalteranti derivanti dalle attività del colosso fossile di almeno il 45% entro il 2030 e  rispetto ai livelli del 2020. Le associazioni confidano che le prove sulla responsabilità delle compagnie fossili in fatto di emissioni di gas serra climalteranti, aiutino a vincere il contenzioso. Molti legali esperti di controversie sul clima, tra l’altro, affermano che i documenti associati al caso ENI dimostrano che l’azienda aveva, già mezzo secolo fa, una chiara comprensione dei rischi posti dalla combustione dei suoi idrocarburi. Non si tratterebbe d’altra parte di una scoperta sconvolgente visto che, recentemente, è emerso in maniera certa che la multinazionale petrolifera americana Exxon conoscesse gli effetti nocivi delle estrazioni petrolifere sul clima già dagli anni ’70, ma fece di tutto per tenerli nascosti.

[di Simone Valeri]

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1 commento

  1. Il problema secondo me, non è tanto l’Eni che accetta commesse, che altrimenti verrebbero prese in carico dai suoi concorrenti, ma sono i clienti di Eni che invece di cercare alternative ai combustibili fossili, continuano a connettere gli stessi errori del passato è ciò della una miopia/mancanza di consapevolezza generale e diffusa

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