«In un sistema capitalista e ultraliberista com’è quello in cui viviamo, l’imperativo di un’ impresa è la massimizzazione del profitto» – esordisce Luca Saltalamacchia nella nostra chiacchierata presso il suo studio legale nel centro di Napoli. «Ogni regola imposta, che mira al rispetto dei diritti, è un costo aggiuntivo, quindi le imprese, soprattutto quando operano in paesi terzi, tendono a violarle». Luca Saltalamacchia è un avvocato civilista che ha viaggiato e lavorato in parecchi angoli bui del mondo, dove la giustizia è nulla più che un miraggio, ed è stato testimone in prima persona delle conseguenze del modello produttivo neoliberista sull’ambiente e sulla vita di molte comunità del sud globale. Da allora, l’utilizzo strategico delle categorie del diritto civile per tutelare l’ambiente e i diritti umani, è divenuto una componente fondamentale del suo lavoro, che ha come obiettivo quello di porre fine agli abusi delle imprese italiane nei paesi terzi, dove estraggono risorse primarie e si accaparrano porzioni enormi del loro territorio. Nel suo mirino sono finite alcune delle più potenti industrie italiane, dall’ENI in giù, colossi che sta facendo tremare nei tribunali, sfidandoli con la forza del diritto.
Oggi, nel panorama dei contenziosi strategici, l’avvocato Saltalamacchia è un’istituzione. Di avvocati così, in Italia, ce ne sono pochi, e per conoscere più da vicino il suo lavoro mi sono recato nel suo studio nel centro di Napoli. Luca – così mi ha detto di chiamarlo – si occupa di questioni legate ai diritti umani sin dall’inizio della sua carriera. Dopo essersi laureato con una tesi sul genocidio, si è dedicato al diritto civile per acquisire esperienza professionale; dal 2008, ha poi intrapreso il suo percorso nel mondo del litigio strategico e del contenzioso ambientale. «Lottare per l’ambiente significa lottare per i diritti umani. Le due cose non sono scindibili. Quando in un fiume si sversano centinaia di litri di petrolio si stanno violando i diritti fondamentali delle popolazioni che ne dipendono, in primis il diritto all’acqua e il diritto alla salute» – mi spiega – «ed è difficile accettare che certe grandi imprese non ritengano importante investire per evitare di contaminare i fiumi usati dalle popolazioni locali per bere, mangiare e lavarsi». L’avvocato pertanto ritiene necessario opporsi utilizzando uno strumento che ancora oggi, forse, è in grado di orientare le scelte industriali verso principi che non siano meramente legati al guadagno economico: la legge.
Tuttavia le difficoltà implicite nel quadro normativo europeo e quindi italiano, sono numerose e spesso difficili da superare. Ad esempio, l’incapacità dell’UE di adottare una direttiva sulla due diligence, ovvero la responsabilità di impresa, protegge le compagnie con sede nell’Unione Europea dalle responsabilità legali per le violazioni dei diritti umani, oltre che per le violazioni degli standard ambientali, attuate nei paesi terzi in cui operano. Proprio lo scorso 9 febbraio tale direttiva è stata rimossa dall’ordine del giorno del Consiglio UE, in quanto paesi come la Germania e l’Italia hanno dichiarato l’astensione dal voto, bloccandone così l’iter e costringendo un rinvio delle votazioni. Va sottolineato inoltre, che la direttiva proposta presenta anche limitazioni strutturali, essendo infatti mirata a colpire solo aziende medio-grandi, esimendo dalla responsabilità sociale e ambientale centinaia di imprese minori. «Come se queste non fossero in grado di compromettere la vita di centinaia di persone e contaminare l’ambiente in modo irreparabile», chiosa Luca.
Inoltre l’istituto della personalità giuridica separata può rappresentare un ostacolo nel momento in cui gli azionisti di un’impresa madre ne abusano approfittando dello “schermo societario” per sottrarsi alle proprie responsabilità per quelle violazioni. L’istituto della personalità giuridica non nasce infatti per permettere agli azionisti di società di eludere le proprie responsabilità ma al contrario per tutelarli da truffe o malefatte degli amministratori, limitando il danno (si fa per dire) alla perdita del capitale investito.
La logica alla base di questo approccio è che, essendo le società madri azioniste della controllata in cui investono, non sempre sono ritenute responsabili per gli atti di quest’ultima. Ciononostante Luca Saltalamacchia nel 2017 è riuscito raggirare questa barriera in un contenzioso che coinvolge il gigante italiano del petrolio ENI per i danni causati a delle comunità indigene nigeriane.
I casi contro Eni
Eni opera in Nigeria attraverso una società da lei interamene controllata, la NAOC – Nigerian Agip Oil Company Limited -, che dalla fine degli anni ‘60 ha cominciato ad installare piattaforme petrolifere nel territorio indigeno Ikebiri, dove, sulle rive del fiume Niger, vivono diverse comunità. A partire dal 1972, dalle piattaforme petrolifere della NAOC sono stati sversati in diverse occasioni un totale di circa 4 milioni di litri di petrolio, compromettendo irrimediabilmente la vita delle comunità e danneggiando l’ecosistema pluviale. Le richieste di risarcimento da parte delle comunità sono state costantemente ignorate dalla NAOC e ciò ha portato ad azioni di protesta violentemente represse: otto persone hanno perso la vita e due leader comunitari sono stati sequestrati e violentemente picchiati.
L’ultimo grande sversamento avviene nel 2010 quando una tubatura NAOC esplode a pochi metri da un torrente contaminando severamente il territorio abitato da decine di comunità, che si sono trovate prive delle loro fonti di sussistenza primaria. Di fronte alla totale mancanza di risposta alle richieste di azioni di bonifica delle aree contaminate e di risarcimenti, il Re Ikebiri, rappresentante delle comunità colpite, nel 2017 cita ENI a giudizio nel Tribunale di Milano assistito dall’Avv. Saltalamacchia: il contenzioso si chiude con la decisione delle comunità di ritirare la causa e accettare una transazione economica dalla NAOC la cui somma non si è mai venuta a conoscere.
Nonostante il risultato ottenuto dal processo non sia stato esattamente quello che ci si aspettava, il caso ENI-Ikeberi rappresenta un importante precedente storico nelle corti italiane dal momento che mai prima di allora un ricorrente non-italiano era riuscito a portare in giudizio una multinazionale italiana per delle violazioni condotte sul suolo di un paese terzo.
Forte di questo precedente, i primi di Dicembre del 2023 Luca Saltalamacchia apre un nuovo contenzioso contro ENI, sempre a nome di comunità indigene nigeriane. Questa volta l’inchiesta contro il gigante degli idrocarburi mira a far rispettare l’accordo preso nel 2019 con le comunità della regione dell’Aggah, nel sud della Nigeria, dove la compagnia si era impegnata a costruire dei sistemi di drenaggio destinati a risolvere il problema delle frequenti inondazioni. Infatti ENI, sempre attraverso NAOC, operando nella regione dagli anni ‘70 ha alterato a tal punto il corso dei fiumi che durante la stagione delle piogge i fiumi continuano ad esondare danneggiando comunità, campi e bestiame, così mettendo a repentaglio la vita di centinaia di persone.
Nel 2018 Egbema Voice of Freedom (EVF), un’organizzazione sociale che difende gli interessi dei popoli del Delta del Niger, aveva già denunciato ENI per le ripetute inondazioni, raggiungendo un accordo dopo un anno di negoziazioni: ENI avrebbe costruito un efficace sistema di drenaggio per risolvere il problema delle inondazioni. Ma a quasi 5 anni dall’accordo, oggi sul territorio di Aggah si trovano sistemi di drenaggio malfunzionanti e inutili di fronte al problema delle inondazioni, lasciando le comunità nella stessa condizione di miseria e precarietà di prima. Nel dicembre 2023, indignato da un comportamento che definisce «abusivo e prepotente», l’avvocato Saltalamacchia, ha portato ENI in tribunale contestandogli l’inadempimento degli accordi presi con le comunità e dando così una nuova speranza alle popolazioni dell’Aggah.
Il Caso Tozzi Green
ENI non pare essere l’unica azienda italiana ad aver creato disagi alle popolazioni locali dei paesi in cui opera. A farle compagnia, secondo le accuse, ci sarebbe la Tozzi Green, impresa di produzione e gestione di impianti energetici alimentati da energie rinnovabili. Visitando il sito web dell’impresa sembrerebbe di aver che fare con un esempio di innovazione, sostenibilità e impegno sociale, dedita a risolvere i problemi del mondo legati al fabbisogno energetico e alimentare. Tuttavia, quel che riportano le comunità contadine del Madagascar dove opera la filiale di Tozzi Green “Jatropha Technology Farm Madagascar” (JTF-Madagascar SARL) dipinge una realtà diversa. Con il fine di produrre mais e gerani su larga scala, la compagnia ravennate avrebbe usato il proprio potere finanziario per comprare grandi appezzamenti di terra (oltre 10mila ettari) fino ad allora usata dalle contadini locali per allevare gli Zebù, capo di bestiame tipico della zona.
Questo fenomeno prende il nome di land-grabbing ed è sempre più diffuso nei paesi del sud globale dove il diritto alla proprietà degli agricoltori di sussistenza viene facilmente by-passato dai governi di fronte al potere economico di un’impresa straniera. Questo porta ad un peggioramento delle condizioni di vita delle comunità locali, alla precarietà e alla dipendenza dal lavoro temporaneo offerto dalle multinazionali, privando intere regioni della loro sicurezza alimentare e intere famiglie della loro attività economica principale: l’allevamento. Luca Saltalamacchia mi spiega che di per sé Tozzi Green «non avrebbe violato norme specifiche», ma che, nonostante ciò, l’acquisto di terreni comunitari senza il consenso diretto e omogeneo delle comunità in un paese che presenta tassi molto elevati di povertà e malnutrizione, «costituisce una violazione di diversi diritti umani».
Per questo motivo l’avvocato, insieme alle ONG Action Aid Italia e Collectif Tany, ha presentato un’istanza al PCN (Punto di Contatto Nazionale) italiano, ovvero l’organo istituito dal Ministero delle Imprese volto a promuovere il rispetto delle linee guida stipulate dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) sulla condotta delle imprese in stati terzi.
Il Caso Pasubio
Un’altra impresa italiana ha portato l’avvocato Saltalamacchia a presentare un’istanza di fronte al PCN. Nel 2022, in collaborazione con l’ONG Survival International Italia, Luca ha deciso di ricorrere all’OCSE per denunciare il contributo dell’impresa italiana Concerie Pasubio nella deforestazione del territorio indigeno appartenente alle comunità Ayoreo Totobiegosode del Chaco paraguaiano. Concerie Pasubio è un’azienda di pellame Vicentina che opera nel mondo delle calzature e degli interni automobilistici dal 1959 diventando, dal 1997 in poi, un’autorità nel settore a livello europeo. Oggi produce per marchi come Volkswagen, BMW, Jaguar, Bentley, Porche, Land Rover, Maserati, Lamborghini e Alfa Romeo. Non sorprende che Concerie Pasubio sia stata considerata nel 2022 il principale importatore di pellame paraguayano in Italia.
La gran parte delle pelli usate da Pasubio sono acquistate da allevamenti che stanno deforestando illegalmente e a tassi elevatissimi il territorio ancestrale degli Ayoreo. A dimostrarlo è stato il report “Grand Theft Chaco I e II“ prodotto dall’ONG britannica Earthsight, che inoltre riporta la presenza di gruppi indigeni in isolamento volontario nelle aree maggiormente colpite dalla deforestazione. Ad oggi, quella del Gran Chaco Paraguayano è la foresta che sta scomparendo più rapidamente al mondo, principalmente a causa di un’impunità degli allevatori, giustificata dagli enormi interessi economici legati al pellame. Per questa ragione, i gruppi indigeni della zona si stanno trovando costretti ad abbandonare le loro terre natali, scappando dai numerosi bulldozer che li circondano. Ma i posti dove andare stanno diventando sempre di meno, e presto finiranno per esaurirsi: la foresta è ormai una delle ultime oasi in un deserto di campi deforestati.
Per fare fronte a questa situazione l’avvocato Saltalamacchia insieme a Survival International ha denunciato Concerie Pasubio facendo leva sulle linee guida dell’OCSE riguardanti il rispetto dei diritti umani, dell’ambiente, degli interessi dei consumatori e di divulgazione di informazioni. La compagnia Vicentina ha dichiarato nel dicembre 2023 l’interruzione di ogni tipo di relazione commerciale con qualsiasi fornitore di pellame che non sia in grado di dimostrare che il prodotto che vende non è relazionabile alla deforestazione dei territori Ayoreo.
Sicuramente questa vittoria è una conquista enorme per l’avvocato e per le popolazioni da lui difese, ma ora è necessario implementare meccanismi di monitoraggio affidabili, di modo da poter verificare che l’impresa compia le sue promesse.
l’avvocato Saltalamacchia è convinto che «se un paese democratico come il nostro deve impoverire, sfruttare, ridurre sul lastrico, drenare le risorse di un altro paese senza permettere ai cittadini di quest’ultimo di beneficiarne, il concetto di democrazia dovrebbe essere ripensato. Ma il vero problema è il sistema economico che sta al disopra della democrazia, è la logica del sistema produttivo ormai puramente capitalista, che tende a considerare ogni cosa merce, pure la dignità umana, e questo permette alle imprese di violare diritti fondamentali senza porsi problemi di coscienza».
C’è una traccia d’amaro sul suo volto quando, alla fine del nostro incontro, mi confessa che «se volessimo realmente che le cose cambino dovremmo mettere tutti in discussione il nostro tenore di vita occidentale, ma io credo che sarebbero in pochi quelli disposti a cambiare per avere una distribuzione più equa delle risorse nel mondo». Intanto Luca continua a combattere, novello Davide contro molteplici Golia, con la sola forza del diritto.
[di Francesco Torri]
Integrazione del 28 marzo 2024: In risposta al presente articolo e in risposta alle affermazioni dell’avvocato Saltalamacchia, l’ufficio stampa di Tozzi Green ci ha chiesto di poter ribattere. Riportiamo di seguito un commento dell’azienda ottemperando al diritto di replica: «in merito a questo articolo, la Società Tozzi Green ribadisce fermamente la correttezza del suo operato e smentisce tutte le notizie fatte strumentalmente circolare sulla vicenda al solo scopo di screditare l’immagine della Società, sottolineando come, invece, da anni abbia promosso una serie di importanti iniziative di carattere economico, sociale e culturale a beneficio delle comunità locali, oltre alle attività di carattere agricolo. Per chiarire tutti gli aspetti relativi all’istanza presentata al PCN dall’avv. Saltalamacchia e confutare le fake news circolate sul tema, Tozzi Green ha recentemente pubblicato sul proprio sito una sezione di approfondimento dal titolo “Focus Madagascar” disponibile al seguente link: https://www.tozzigreen.com/focus-madagascar/».
Il fulcro di tutto è l’ultimo capoverso (e mi ci includo io per primo).
Gli italiani, per la maggior parte sono ignoranti nel senso che ignorano completamente quanti danni fanno nel mondo ( così detto terzo mondo) i loro connazionali. Questo bellissimo articolo mette chiaramente in luce tutti i genocidi compiuti nel mondo dagli imprenditori italiani e si capisce perché questi italiani fanno dimostrazioni a favore di Israele………la parola genocidio è per loro un termine sconosciuto !!!! !!
Pregevole e interessantissimo articolo. Ci vorrebbero stuoli di avvocati così. Anche se, senza una rivoluzione di fondo della società di mercato, sembra di fare una battaglia donchisciottecsa contro i mulini a vento.
Il sottofondo da estirpare, politico, etico ed esistenziale, come ha detto l’avvocato, è questo: «In un sistema capitalista e ultraliberista com’è quello in cui viviamo, l’imperativo di un’ impresa è la massimizzazione del profitto. Ogni regola imposta, che mira al rispetto dei diritti, è un costo aggiuntivo, quindi le imprese, soprattutto quando operano in paesi terzi, tendono a violarle».