domenica 22 Dicembre 2024

“Nessuna responsabilità”: i giudici USA salvano le big tech dalla causa dei bambini schiavi

Una corte d’appello federale ha rifiutato di ritenere responsabili cinque grandi aziende tecnologiche per il loro presunto sostegno all’uso del lavoro minorile nelle operazioni di estrazione del cobalto nella Repubblica Democratica del Congo. Con una decisione di 3-0, la Corte d’Appello degli Stati Uniti per il Distretto di Columbia si è pronunciata a favore di Alphabet, società madre di Google, Apple, Dell Technologies, Microsoft e Tesla, respingendo un ricorso presentato da bambini ex minatori – feriti in incidenti nelle cave estrattive – e dai loro rappresentanti legali. I querelanti hanno accusato le cinque società di essere parte, insieme ai fornitori (che però non sono stati imputati in questo processo), di un’impresa che utilizza “lavoro forzato e lavoro minorile” acquistando il cobalto estratto nella Repubblica Democratica del Congo, detentrice di circa due terzi di tutto il cobalto estratto a livello mondiale, utilizzato per produrre batterie agli ioni di litio ampiamente utilizzate negli apparecchi elettronici a batteria.

Nel caso, Doe v. Apple Inc., n. 21-7135 (D.C. Cir. 2024), intentato ai sensi del Trafficking Victims Protection Reauthorization Act del 2008 (TVPRA), secondo la denuncia le aziende hanno “deliberatamente oscurato” la loro dipendenza dal lavoro minorile, compresi molti bambini costretti a lavorare dalla fame e dalla povertà estrema, per garantire il loro crescente bisogno di cobalto per le batterie di ioni. La conclusione del processo, però, ha visto prevalere le multinazionali della Silicon Valley poiché, secondo la Corte, il semplice acquisto di una quantità non specificata di cobalto attraverso la catena di approvvigionamento globale non equivale a “partecipare a un’impresa” ai sensi del TVPRA. Il tribunale ha anche respinto le richieste di common law dei querelanti per arricchimento ingiusto, supervisione negligente e inflizione intenzionale di stress emotivo, poiché non sono riuscite a dimostrare che le aziende tecnologiche abbiano partecipato a un’impresa con chiunque fosse impegnato nel lavoro forzato. Pertanto, il tribunale ha confermato il rigetto del reclamo da parte del tribunale distrettuale.

Il giudice Neomi Rao ha detto che i querelanti avevano la legittimazione legale per chiedere i danni, ma non ha dimostrato che le cinque società avessero qualcosa di più di un rapporto acquirente-venditore con i fornitori, o che avessero il potere di fermare l’uso del lavoro minorile, spiegando che molte altre parti sono responsabili del traffico di manodopera, compresi gli intermediari del lavoro, altri consumatori di cobalto e il governo della Repubblica Democratica del Congo. “Senza accuse più specifiche, la domanda è se l’acquisto da parte delle aziende tecnologiche di una quantità non specificata di cobalto da una catena di approvvigionamento proveniente dalle miniere della Repubblica Democratica del Congo dimostri plausibilmente la ‘partecipazione a un’impresa’ con chiunque sia impegnato nel lavoro forzato in quella catena di approvvigionamento”, ha scritto Rao. “Noi riteniamo che non sia così”.

Dell, l’unica ad esprimersi sul caso, ha dichiarato di essere impegnata a sostenere i diritti umani dei lavoratori in tutta la sua catena di approvvigionamento e di non aver mai consapevolmente acquistato prodotti realizzati con lavoro minorile. Insomma, se è successo di aver acquistato materiale proveniente da sfruttamento del lavoro minorile e del lavoro forzato, non lo sapevano.

Terry Collingsworth, un avvocato dei querelanti, ha detto sulla sentenza: “È un forte incentivo a evitare qualsiasi trasparenza con i loro fornitori, anche se promettono al pubblico di avere politiche di ‘tolleranza zero’ contro il lavoro minorile”. Tra i fornitori di cobalto, che non erano imputati in questo processo, sono inclusi: Eurasian Resources Group, Glencore, Umicore e Zhejiang Huayou Cobalt. Tutte queste aziende, attive nell’estrazione e/o nel commercio di metalli, hanno storie fatte di indagini, processi, condanne e confessioni di svariati reati, specie per quanto riguarda corruzione, inquinamento e, appunto, lavoro minorile e schiavitù. La realtà dell’estrazione dei metalli nei Paesi poveri è ormai cosa ben nota e certamente vi sono responsabilità condivise, a vario livello, tra tutti gli attori della catena di produzione-vendita dei metalli, come nel caso specifico del cobalto.

Seppure le società della Silicon Valley non siano direttamente responsabili, sono ben felici di acquistare materia prima a costi estremamente bassi poiché frutto di sfruttamento del lavoro, compreso quello minorile, della violazione dei diritti umani e di processi distruttivi di forte impatto ambientale. Ed è difficile pensare che ignorino del tutto queste realtà. Questo caso è l’ennesima esempio di come l’Occidente sia campione della retorica e delle belle parole, che quando si stringe ai fatti si squagliano come neve al sole.

[di Michele Manfrin]

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