domenica 22 Dicembre 2024

Strategia Artica: oscuro passato e futuro incerto dell’America nel suo Grande Nord

Del continente chiamato Nuovo a partire da quando fu riscoperto e progressivamente colonizzato dagli europei si conoscono perlopiù le grandi città, lo stile di vita, l’impeto aggregatore e quello innovatore. In questo continente esiste anche un grande spazio, spesso lontano dalla luce dei riflettori della politica internazionale, che in questa fase di cambiamenti torna ad essere terreno di soluzioni originali ai problemi del prossimo futuro, terreno fisico di strategie a lungo termine per coloro che si trovano a ridisegnare la loro area di controllo egemonico: sia per coloro che sono costretti a ripensarla più piccola di com’era che per chi, compiaciuto, allarga di qualche centimetro il compasso e traccia sfere di influenza tutte nuove. Anche nell’Artico americano, una grande e scarsamente popolata porzione del continente nonché la prima ad essere stata raggiunta dall’uomo probabilmente tra 20.000 e 13.000 anni fa, si giocano le sorti del controllo di Washington su tutti i mari che circondano il cuore del suo impero. Se il Pacifico sarà il grande teatro di un possibile scontro con la Cina, l’Oceano Artico (in italiano Mar Glaciale ma considerato oceano nella maggior parte del mondo) è infatti l’ultimo oceano, tra quelli circondanti le Americhe, a non contare su una presenza di ampia scala degli Stati Uniti che sorpassi quella di Mosca, ma solo su un controllo della dimensione aerea mantenuto soprattutto grazie alla base artica di Thule, la più a nord dell’impero a stelle e strisce.

Costruita all’inizio degli anni ‘50 in quella che fino ad allora era stata l’area continuamente abitata più a nord del mondo e che, per questo, fu il luogo dove l’esploratore Knud Rasmussen eresse la “Stazione Thule” di Capo York per le sue esplorazioni artiche, la base fu causa del trasferimento forzato degli Inuit che abitavano l’omonimo villaggio adiacente (dal nome originale di Uummannaq/Umanak, poi Pituffik). Nel ‘53, dopo un ultimatum in cui vennero dati loro 3 giorni per lasciare le proprie case, gli abitanti furono tutti spostati 100 km più a nord nel villaggio di Qaanaaq, il quale, costruito ex novo, prese lo stesso soprannome del villaggio precedente.

L’episodio, oggi pericolosamente sconosciuto al di fuori della società groenlandese, fu solo l’ultimo di una serie di trattamenti pesantemente impattanti sulle popolazioni artiche americane messi in atto nel corso dei secoli come risultato di un piano strategico o, più curiosamente, come mezzo “ibrido” per il controllo territoriale di un’area molto remota ma già di vitale importanza a partire dall’epoca delle prime esplorazioni europee del continente.

Da quando nel 1577 Martin Frobisher, navigatore britannico, rapì e portò tre Inuit dell’isola di Baffin in Inghilterra con la speranza di anglicizzarli e usarli come interpreti per futuri viaggi (morirono tutti nel giro di poche settimane), si cominciarono a diffondere rappresentazioni di quelli che erano considerati i “selvaggi mangiatori di carne cruda” dell’estremo Nord America.

Nell’epoca della Grandi Esplorazioni Polari, tra XIX e XX secolo, molti Inuit furono usati come guide a supporto degli esploratori polari per la loro resilienza e conoscenza delle tecniche di sopravvivenza nell’Artico. Le grandi spedizioni compiute via mare, via terra e perfino per via aerea entrarono presto a far parte del corredo narrativo-romantico della retorica nazionale non solo dei più prevedibili Stati Uniti ma anche di attori meno sospettabili, ritenuti solitamente “potenze minori” come la Norvegia, di fatto la prima a raggiungere il Polo Sud nel 1911 e sempre la prima a raggiungere con certezza il Polo Nord nel 1926.

[La storica foto del 1913 che ritrae “Le tre stelle polari”: Roald Amundsen, Ernest Shackleton e Robert Peary, fondamentali nelle rivendicazioni polari rispettivamente di Norvegia, Regno Unito e Stati Uniti. Foto della Biblioteca Nazionale norvegese. Public domain]
Lo statunitense Peary, l’uomo che dichiarò di aver raggiunto per primo il Polo Nord nel 1909, fu lo stesso che in una spedizione del 1897 portò con l’inganno sei Inuit a New York per farli studiare nel Museo di Storia Naturale Americano. Degli unici due che sopravvissero alle malattie occidentali il piccolo Minik Wallace, all’epoca un bambino di 10 anni, fu l’unico che rimase negli States. Lo scheletro di suo padre, morto di tubercolosi, fu esposto nel museo.

La deportazione delle popolazioni artiche però, come dicevamo, non fu usata solo a scopi di ricerca scientifica o di esplorazione. Tra i paesi direttamente affacciati sull’Artico il Canada, ritenuto un timido “cugino” degli USA di scarsissima rilevanza e totalmente dipendente da essi sul piano economico e militare (le forze armate canadesi contano 62.000 uomini attivi contro gli 1.300.000 statunitensi), fu inaspettatamente autore, all’inizio della Guerra Fredda, di un piano di “conquista” oggi ricordato con grande sdegno dalla sua opinione pubblica.    

[A sinistra: due tavole che mostrano alcune delle raffigurazioni in circolazione nella Gran Bretagna di fine ‘500 di “Kalicho”, “Arnaq” e “Nutaaq”, rapiti dal navigatore Frobisher. Fonte: British Museum. Dipinto di John White, public domain. A destra: il piccolo Minik Wallace, portato a New York da Robert Peary con l’inganno. 1897 public domain.]
Il suo arcipelago artico è il territorio che contribuisce a rendere il Canada – un paese di neanche 40 milioni di abitanti – il secondo più grande al mondo e che lo porta al centro dello scenario delle nuove rotte a Nord, sempre più vicine all’apertura a causa dello scioglimento dei ghiacci del polo. Tra esse lo storico Passaggio a Nordovest, una vera ossessione per gli inglesi in epoca coloniale, ancora oggi mai sfruttato davvero efficacemente per viaggi intercontinentali.

Nel 1953, gli stessi anni della costruzione della base aerea di Thule in Groenlandia, il Canada approntò il trasferimento di 92 Inuit dal nord del Québec verso Grise Fiord e Resolute, due villaggi costruiti appositamente 1.800 km più a nord, rispettivamente sull’isola di Cornwallis e sull’isola di Ellesmere. Lo scopo sarebbe stato quello di aiutare la popolazione a ricevere maggiori servizi dal governo e a prosperare in aree “ricche di opportunità di caccia”. Le due isole, tra le più settentrionali ed inospitali dell’arcipelago, non contavano sulla presenza di nessun insediamento umano: le condizioni meteo e la scarsità di fauna non erano adatte a sostenere lo sviluppo nemmeno di una comunità di Inuit, maestri nello sfruttare le risorse di territori durissimi.

La mossa del ricollocamento di massa venne percepita dagli Inuit, dopo aver vissuto nelle due isole in condizioni estreme e in continua carenza di cibo per decenni, come parte di un piano per consolidare la sovranità territoriale del Canada sulle sue isole più a nord. A completare il puzzle era la costruzione di basi militari e meteorologiche in uno sforzo congiunto con il governo degli Stati Uniti, in un momento storico in cui la Russia poteva essere avvertita come una minaccia verso quella parte nordorientale di arcipelago, più fuori portata rispetto al resto del continente. Negli anni ‘80 le famiglie dei Relocated, termine che ancora oggi tocca una ferita aperta per molti nativi artici, chiesero una compensazione di 10 milioni di dollari canadesi, garantita loro nel 1996.

Un simile stratagemma venne utilizzato anche in Groenlandia dalla Danimarca per affermare la sua sovranità sul nord-est groenlandese, la parte più remota, inaccessibile e allora completamente disabitata dell’isola, portando alcune famiglie dall’unico villaggio della Groenlandia orientale, Tasiilaq, nella neonata Scoresbysund, oggi Ittoqqortoormiit.

Sul versante occidentale dell’isola, invece, un conflitto tra due potenze artiche scoppiò quasi per gioco quando diplomatici e marinai di Canada e Danimarca cominciarono a lasciare delle bottiglie di liquori tipici dei rispettivi paesi al centro di Hans Island, uno scoglio di 1,3km² che giace proprio sulla linea di confine tra acque groenlandesi e canadesi privo di qualsivoglia risorsa naturale o interesse militare. La “Guerra del Whisky” – in realtà banalissimo impasse diplomatico – sarebbe durata dal 1973 fino al 2022, quando fu deciso di dividere lo scoglio in due, creando l’unico confine di terra attualmente esistente tra un’entità politica europea ed una nordamericana.

I liquori, a queste latitudini, non provocarono però solo scherzi o curiosi episodi diplomatici, ma in Groenlandia, così come nell’Artico canadese e in Alaska, furono concausa di violenze, abusi di sostanze, stupri e suicidi. Fenomeni che subirono un’impennata in concomitanza del più massiccio contatto tra le popolazioni native e l’alcool attorno a metà del XX secolo, lo stesso periodo in cui avvenne la costruzione massiva di case in prefabbricato per accentrare comunità che vennero private anche della loro struttura sociale tradizionale e sottoposte alla pressione della competizione per la pesca delle specie che davano esse sostentamento. In questo scenario gli Inuit svilupparono dipendenze con estrema rapidità, veicolate dalle grandi quantità di beni di consumo e cibo industriale di cui le comunità venivano improvvisamente riempite. Violenze e suicidi dilagarono come in un’epidemia.

Forzati in maniera repentina al capitalismo, gli Inuit, che provenivano da uno stile di vita basato sulla caccia e la cui ricchezza materiale non poteva certo consentire loro una emigrazione di massa da territori di per sé isolati e scarsamente interconnessi, si ritrovarono prigionieri delle loro stesse terre. Nonostante la popolazione nativa dell’Artico sia in fase di guarigione da questi traumi del passato, la Groenlandia rimane ancora uno dei luoghi con il più alto tasso di suicidi al mondo, l’Alaska risulta uno degli stati con il più alto numero di crimini violenti e suicidi pro capite degli Stati Uniti e le province abitate dagli Inuit canadesi sono le più povere del paese.

In qualche modo il mare, l’entità che gli Inuit nella loro mitologia ritengono essere la fonte di ogni vita ma anche la causa di ogni disgrazia, si rivelò un mezzo di comunicazione con un Occidente portatore di sciagure ma anche, in chiave internazionale, uno dei punti di forza maggiori della Groenlandia e di tutto l’estremo settentrione americano. La purtroppo caldamente attesa apertura della rotta a nord-ovest grazie allo scioglimento dei ghiacci artici, permetterà un possibile passaggio alternativo tra Pacifico ed Atlantico ancora privo, di fatto, di qualsivoglia controllo militare e commerciale.

In un Risiko artico in cui le pedine non sono state solo mezzi militari ma anche civili inconsapevoli, i due giganti del Nord America hanno saputo creare una zona controllata più o meno capillarmente nei suoi sterminati deserti freddi, fiordi e piccoli villaggi. Nonostante Washington paia essere stata in grado fino ad ora di tenere a bada le mire cinesi sull’Artico impedendo alla Groenlandia qualsiasi rapporto commerciale con Pechino, anche nei terreni gelidi dell’America più fredda c’è una crepa che riflette la frattura interna degli USA, una frattura che risulta essere sempre più profonda.

In un momento storico poi in cui le minoranze indigene chiedono sempre più a gran voce il riconoscimento dei maltrattamenti subiti anche per mano del più “mite” governo della foglia d’acero, l’America, laddove i ghiacci vanno aprendosi assieme a nuove opportunità, pare rischiare di rimanere invece congelata nei suoi errori del passato.

[di Giacomo Casandrini]

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