La protesta dei trattori è legata a rivendicazioni molto attuali, a scadenze contingenti e obiettivi che si trovano vicini nel tempo. All’interno delle proteste esiste tuttavia un movimento che guarda le cose più a lungo termine, che si fa voce dei lavoratori rurali portando avanti rivendicazioni che tengono conto tanto della questione agricola quanto di quella ecologica. Si tratta de La Via Campesina, un movimento «autonomo, pluralista e multiculturale, politico nella sua richiesta di giustizia sociale e indipendente da ogni partito politico, economico o da altri tipi di affiliazione». Si tratta di un movimento che si pone come scopo primario la lotta per il diritto alla sovranità alimentare di ciascun popolo, per la giustizia ecologica e ambientale e per quello alla terra e all’acqua, oltre a voler tutelare i lavoratori. Un movimento ramificato in tutti i continenti, che si pone l’obiettivo di «globalizzare le lotte» che accomunano gli agricoltori del nord e del sud del mondo, strozzati dalle medesime logiche di un’agricoltura fatta su misura delle grandi multinazionali.
Un “movimento di movimenti”
Gli anni ’90 sono gli anni della globalizzazione. Il cambio di paradigma da locale a globale è stato venduto come la panacea all’esplosione demografica del secondo dopoguerra nei Paesi occidentali, in grado di rispondere ai problemi alimentari di base. L’aumento delle superfici coltivate o destinate all’allevamento e il perfezionamento delle metodologie di conservazione dei cibi per allungarne la scadenza sono alcune delle strategie messe in moto dalla macchina industriale. Nel 1994, dopo otto anni di negoziati, nasce l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), grazie alla quale la produzione e il commercio del cibo, l’ambiente, l’accesso alla terra e la cultura legata alla vita nei campi vengono assoggettate alle nascenti regole neoliberiste del mercato internazionale. In risposta, in tutto il mondo sorgono movimenti contadini che mirano a difendere il valore del cibo in quanto bene, diritto da tutelare, non merce o strumento di profitto. È in questo contesto che, nel 1993, un gruppo di uomini e donne di diverse etnie ed entità, appartenenti a organizzazioni sociali e cooperative alimentari di piccole dimensioni e provenienti da tutti i continenti si ritrova a Mons, in Belgio. L’intento è quello di sviluppare una visione condivisa tra i piccoli agricoltori, da opporre alle politiche agricole e dell’agribusiness. L’obiettivo è quello di portare la voce dei piccoli agricoltori di tutto il mondo a pesare sui tavoli dove si definiscono le politiche che avranno un impatto sulle loro vite e, indirettamente, su quelle di tutti i cittadini-consumatori. Con queste prerogative nasce così La Via Campesina, un movimento che riunisce al suo interno milioni di contadini, lavoratori senza terra, indigeni, pastori, pescatori, lavoratori agricoli migranti, piccoli e medi contadini anche molto giovani. Un movimento che ha tra le proprie prerogative il raggiungimento della parità di genere tramite la valorizzazione del ruolo delle donne, le quali «producono il 70% del cibo sulla terra ma sono emarginate e oppresse dal neoliberismo, dal colonialismo e dal patriarcato». L’obiettivo primario del movimento è difendere l’agricoltura contadina e il diritto alla sovranità alimentare di ciascun popolo. Al fine di rappresentare al meglio le esigenze di ciascuna parte componente il movimento, ogni quattro anni la segreteria operativa internazionale cambia sede: la prima è stata in Belgio (1993-1997), poi in Honduras (1997-2004), Indonesia (2005-2013) e Zimbabwe (2013-2020). Dal 2021, la segreteria operativa ha sede a Bagnolet, in Francia. Le decisioni vengono prese nell’ambito delle Conferenze internazionali, che si svolgono una volta ogni quattro anni. Da quando è stato fondato il movimento se ne sono svolte già sette. A implementare le decisioni è l’International Coordination Committee (ICC, Comitato di Coordinamento Internazionale), un gruppo scelto di rappresentanti degli agricoltori provenienti da tutti i continenti, i cui membri si incontrano all’incirca due volte all’anno. Non si tratta di una federazione o una organizzazione non governativa, con strutture rigide, uno staff centrale e periodiche raccolte fondi, ma piuttosto di un «movimento di movimenti», che intende rappresentare in primo luogo i lavoratori della terra, da qualunque parte del globo essi provengano. Proprio per tale motivo, le sfide che si trova ad affrontare sono molte e molto differenti tra di loro, anche se si possono tracciare dei punti in comune, come la lotta alla crisi ecologica, alla fame, alla malnutrizione, al disagio migratorio nelle aree rurali. Per quanto a livello territoriale i programmi di lotta siano differenti tra loro, tutti affondano le proprie radici nella richiesta di giustizia sociale e nel rispetto per i diritti dei contadini. «In tutto il mondo esiste una tendenza verso la riduzione dello spazio civico e la riduzione della volontà a difendere i diritti umani – scrive il movimento. Gli attivisti a livello locale sono sempre più vulnerabili alle violazioni dei diritti umani, all’oppressione e alla criminalizzazione. La violenza della repressione statale, che utilizza le forze militari e di sicurezza, prende di mira le persone e perseguita masse di manifestanti pacifici in tutto il mondo. Dall’altro lato, la supremazia e la legittimità del settore pubblico è ogni volta più minacciata dall’appropriazione corporativa dei processi politici e da una narrativa dello sviluppo che assegna un ruolo di leadership all’investimento nel settore privato, mentre il multilateralismo è attaccato da un nazionalismo violentemente populista e un modello multipartito promosso dalle corporazioni».
Una prerogativa su tutte: la sovranità alimentare
Il termine “sovranità alimentare” ha un significato ben preciso, che fa riferimento al diritto delle persone ad avere accesso a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto con metodi sostenibili, e al diritto di ciascun popolo di definire i propri sistemi alimentari e agricoli. Secondo il modo di vedere de La Via Campesina, affinché chiunque abbia accesso a un cibo sano e prodotto in armonia con la natura, è necessario orientare i modi di produzione all’agricoltore. Di fatto, il concetto di sovranità alimentare nulla ha a che fare con la politica protezionista, come talvolta si confonde nel linguaggio politico e nei programmi dei partiti conservatori, ma piuttosto con la tutela del legame tra il cibo e la sostenibilità della produzione, intesa in termini di rispetto dell’ambiente e delle comunità, presenti e future. Alla base vi è il rispetto della sovranità dei popoli nella scelta delle proprie politiche alimentari, tanto di produzione quanto di consumo, senza costrizioni esterne legate a interessi privati e specifici, affinché siano in sintonia con il tessuto ecologico, economico e sociale e garantiscano l’accesso a un cibo sano, nutriente e culturalmente appropriato. Si tratta di un diritto sancito per la prima volta nel 1948, con l’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Tutelare la sovranità alimentare significa opporsi a quell’insieme di pratiche condotte dall’agroindustria e dalla Grande Distribuzione Organizzata (GDO), con il beneplacito dei governi nazionali e delle organizzazioni sovranazionali, tra le quali figurano le monocolture, l’utilizzo massiccio di prodotti chimici, gli allevamenti intensivi, la produzione di cibi ultra-processati e così via. Tali istituzioni veicolano quotidianamente la falsa verità per la quale gigantesche navi portacontainer, aerei e camion si muovono costantemente attraverso il globo per sfamare l’umanità: la cruda realtà, invece, è che mentre la copertura alimentare abbonda largamente in alcuni continenti (Europa e Nord America, dove milioni di tonnellate di cibo vengono sprecate ogni anno), non raggiunge gran parte del resto del globo. In aggiunta, per garantire il funzionamento di tale sistema le coltivazioni sono irrorate di fertilizzanti e pesticidi, che accelerano i tempi di produzione ma hanno effetti tossici non solo sull’ambiente, ma anche sulla salute delle persone. Garantire la sovranità alimentare di ciascun popolo è tra gli obiettivi primari, se non il principale, del movimento de La Via Campesina. Per raggiungerlo, esso si mobilita sostenendo riforme agrarie nei territori contadini e fornendo formazione sui metodi di produzione agro-ecologici. Dalla data della sua nascita, il movimento si è seduto ai tavoli di discussione con la FAO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), con rappresentanti della società civile e delle organizzazioni indigene, con il Comitato per la sicurezza alimentare mondiale (CFS) e molte altre. È proprio grazie a questo incessante lavoro che è stata redatta la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei contadini e altre persone che lavorano nelle aree rurali (UNDROP), adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2018. Il documento costituisce un passo fondamentale per «l’affermazione dei diritti contadini e la ri-democratizzazione degli spazi legislativi», tramite l’inclusione dei produttori e dei lavoratori nei processi politici e legislativi.
Contro i trattati di libero scambio
Il 26 febbraio scorso, in India, gli agricoltori sono tornati in piazza in 400 distretti in tutto il Paese per una grande manifestazione dal nome Quit WTO Day. In quest’occasione, ai funzionari di Stato sono state consegnate petizioni che esortano il governo a proteggere i programmi di sostegno interno e le scorte alimentari, da presentare alla 13a riunione ministeriale del WTO, svoltasi dal 26 al 29 febbraio scorso ad Abu Dhabi. I movimenti agricoli indiani hanno una lunga storia di opposizione alla globalizzazione e alla liberalizzazione dei mercati, e hanno sempre insistito affinché qualsiasi accordo di libero scambio preso in considerazione dal governo indiano venisse discusso e approvato da entrambe le Camere del Parlamento prima della ratifica. Tali politiche agiscono attraverso la deregolamentazione e la privatizzazione dei servizi pubblici, con un impatto estremamente deleterio nei cosiddetti Paesi “in via di sviluppo”. Per stare al passo, infatti, i governi del Sud globale (India compresa) hanno dovuto attuare riduzioni degli investimenti pubblici e dei programmi di welfare, con conseguenze notevoli sul benessere dei propri cittadini. Le preoccupazioni degli agricoltori indiani si riflettono infatti nella situazione in cui vertono gli agricoltori del Paese, trent’anni dopo la liberalizzazione dei mercati. Metà delle loro famiglie sono gravate da debiti e alle prese con l’aumento dei costi della produzione, ma con una remunerazione ancora inadeguata e con una lunga sfilza di sfide ambientali come la siccità, la diminuzione dei livelli delle falde acquifere, il meteo irregolare, le infestazioni dei parassiti e l’impoverimento del suolo. Con questi presupposti, l’agricoltura è diventata sempre più difficilmente praticabile per gli agricoltori su piccola scala e di sussistenza. Nel 2021, il reddito mensile di una famiglia di agricoltori in India è di 10.218 rupie (appena 123 dollari USA, al cambio attuale), dato che comprende il reddito da salario, l’affitto di terreni, i proventi della produzione agricola, il reddito da allevamento di animali e altri redditi non agricoli: una cifra estremamente esigua, se si considera che si tratta di un Paese largamente agricolo. Da ormai vent’anni gli agricoltori indiani insistono per un prezzo minimo di sostegno (MSP) aggiustato all’inflazione per i loro raccolti (iniziativa a più riprese criticata dagli economisti neoliberali). Sono state numerose le proteste per chiedere l’attuazione del Rapporto della Commissione Swaminathan, che raccomandava di fissare il MSP almeno al 50% al di sopra del costo medio ponderato di produzione. Nel 2021, i contadini hanno protestato per 13 mesi di fila, per chiedere, tra le altre cose, che questa condizione fosse attuata, e sono tornati in piazza anche in questi mesi. Ma le proteste contro gli accordi di libero scambio non riguardano solo l’India: nel corso delle proteste che hanno inondato l’Europa in questi mesi, tre associazioni afferenti al movimento La Via Campesina (ASAJA, Asociación Agraria de Jóvenes Agricultores; COAG, Coordinadora de Organizaciones de Agricultores y Ganaderos; UPA, Unión de Pequeños Agricultores y Ganaderos) hanno chiesto il completo stop ai negoziati per gli accordi di Mercosur con l’Unione Europea, che aprirebbe ulteriormente al commercio con Argentina, Bolivia, Brasile, Paraguay e Uruguay, oltre che a quelli con la Nuova Zelanda, che «aprirebbero all’importazione di carne e latte dall’altra parte del pianeta». La richiesta è anche di fermare «i negoziati con Cile, Kenya, Messico, India e Australia». Il timore è che tali accordi abbiano conseguenze devastanti per l’agricoltura, l’allevamento, le economie basate su questi settori, il pianeta e «i nostri stessi corpi». Tali accordi sono solamente gli ultimi prodotti delle politiche della globalizzazione promosse in larga parte dal WTO, che hanno comportato la perdita di strumenti di protezione per gli agricoltori, come per esempio i prezzi indicativi per la produzione. Per aiutare il commercio internazionale, infatti, si tende a eliminare più forme di regolamentazione possibile, che vengono comunque determinate da pochi Paesi – nonostante il loro impatto sia globale. Una mobilitazione per motivi analoghi ha trovato ampio spazio anche in Asia, dove alcuni gruppi afferenti a La Via Campesina hanno lanciato un appello al WTO al fine di escludere i Paesi del Sud globale dalle politiche dell’Organizzazione. «Un quadro commerciale globale alternativo basato sui principi della sovranità alimentare, della giustizia sociale, della solidarietà e dell’internazionalismo è ora più urgente che mai» hanno sottolineato. I Paesi del Sud globale, sostiene La Via Campesina, «non dovrebbero procedere con ulteriori negoziati ma rafforzare i forum democratici e i meccanismi delle Nazioni Unite come l’UNCTAD per promuovere accordi multilaterali volti ad un autentico sviluppo economico, alla cooperazione, allo sviluppo sostenibile e al benessere delle loro popolazioni».
Le diverse declinazioni del movimento nelle varie parti del mondo hanno, come accennato, un focus comune: la giustizia sociale e l’autodeterminazione dei popoli. Nella filosofia de La Via Campesina, che abbraccia di anno in anno sempre più realtà rurali nel mondo, ciascun popolo dovrebbe poter avere diritto a coltivare il proprio cibo e soddisfare le proprie esigenze alimentari nel pieno rispetto dell’equilibrio della natura, liberi da meccanismi predatori imposti dall’alto che, ben lontani dal democratizzare la redistribuzione delle risorse, basano il loro funzionamento proprio sul saccheggio di queste ultime. Solamente con un ritorno a una dimensione locale e autonoma sarà possibile accedere a una vera giustizia sociale, per gli agricoltori e per tutti.
[di Valeria Casolaro]
Bell’articolo, grazie. Sono d’accordo con l’ultima frase, infatti io ormai tutto quello quello che posso lo prendo dai mercati o negozi locali, al supermercato ormai prendo solo quelle cose che non si trovano lì, a costo di spendere un po’ di più.
Finalmente una voce veramente alternativa, con una visione ampia e solidale, relativa ai problemi dell’agricoltura, del suo sviluppo e di chi ci lavora per vivere
Distruggiamo per sempre il fascismo col caos: Non ci si oppone a fascismo o imperialismo li si distrugge col caos sovrano, smettiamo di mettere ordine nelle nostre vite, lasciamole complicarsi sempre di più ogni giorno ed il potere non capirà più niente!