sabato 21 Dicembre 2024

I professori diventano professoresse: l’Università di Trento vara il “femminile inclusivo”

Giovedì 28 marzo, l’Università di Trento ha varato il nuovo regolamento generale, introducendo una novità che ha parecchio fatto discutere: il documento è stato redatto utilizzando il femminile sovraesteso per le cariche e i riferimenti di genere. Tutte le parole che fanno riferimento ai ruoli e ai titoli così come quelle che parlano di un insieme di persone saranno dunque declinate al femminile, motivo per cui nel testo si discuterà di “professoresse” e “studentesse” facendo riferimento agli interi insiemi di categoria. Come sottolinea il comunicato stampa dell’Università, il documento costituisce il primo caso di atto redatto in questo modo da parte dell’amministrazione dell’ateneo, ed è concepito sulla scia della “adozione nel 2017 delle linee guida sul linguaggio rispettoso delle differenze”, con il fine di “perseguire l’impegno dell’Ateneo per la costruzione di un’università più inclusiva”. Una decisione politica e sociale che visto il recente rifiuto di ridiscutere i bandi di collaborazione con Israele, pare più intrisa di “lavaggio civile” simile alle mosse di greenwashing, che volere portare avanti reali ideali di sorta.

Il nuovo regolamento conterà circa 50 pagine e verrà emanato al termine degli ultimi passaggi formali. Come si legge nel comunicato stampa dell’Università di Trento, nella sua formulazione viene adottato il femminile sovraesteso, giustificato con l’introduzione di un apposito comma nell’Articolo 1, che specificherà come “i termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone”. Il motivo per cui si è scelto di usare il femminile sovraesteso è tanto pratico quanto simbolico: il Rettore Flavio Deflorian spiega infatti che «accordarsi alle linee guida sul linguaggio rispettoso» in vigore presso l’Università di Trento dal 2017, «avrebbe appesantito molto tutto il documento», perché «in vari passaggi si sarebbe dovuto specificare i termini sia al femminile, sia al maschile»; per tale motivo, l’amministrazione ha optato per l’utilizzo di un solo genere grammaticale per denotare tutte le cariche, i titoli e le categorie di persone, scegliendo però, al contrario dell’uso comune, il femminile.

La questione dell’utilizzo del cosiddetto “maschile sovraesteso” (in taluni casi definito dalla linguistica “maschile indifferenziato”, in quanto dotato di valenza pseudo-neutra, o “maschile non marcato” in quanto forma più vicina allo standard grammaticale delle parole), ovvero dell’impiego di termini di genere grammaticale maschile per riferirsi anche a individui di sesso femminile, è molto dibattuta anche all’interno del campo della linguistica e della filosofia del linguaggio. Il dibattito, prevalentemente italiano, sorge nel 1987 quando la linguista Alma Sabatini pubblica il celebre saggio Il sessismo nella lingua italiana, nel quale porta avanti la tesi secondo cui l’utilizzo del maschile indifferenziato rispecchi il sessismo intrinseco alla società patriarcale da secoli. Negli anni numerosi linguisti si sono espressi sul tema, in generale riconoscendo il valore della tesi di fondo secondo cui l’italiano dovrebbe virare verso forme di linguaggio più inclusivo; tuttavia, anche tra coloro che pensano che questa operazione sia legittima e vada in qualche modo fatta, non tutti sono d’accordo su come farlo.

La stessa Accademia della Crusca, l’istituzione italiana dedicata allo studio della sua lingua, si è spesso espressa a favore dell’utilizzo di un linguaggio più inclusivo, raccomandandosi tuttavia che nel farlo essa venga salvaguardata da eccessivi stravolgimenti. È il caso, secondo la stessa Crusca, dell’utilizzo della schwa, contro cui nel 2022 un folto gruppo di linguisti, tra cui figuravano personalità particolarmente eminenti quali Luca Serianni e Francesco Sabatini, lanciò una petizione per frenarne l’uso. La questione di fondo, effettivamente, più che essere di natura grammaticale, sembra essere di natura sociale e politica, considerazione che lungi dallo screditare la validità sociale delle rivendicazioni dei sostenitori di forme più radicali di linguaggio inclusivo, intende valorizzare le loro tesi ricollocandole nella loro giusta dimensione. Serianni diceva che “la lingua non ha colpe”, ed effettivamente gli studi di linguistica storica sono concordi nel riconoscere come la nascita del maschile non marcato in italiano affondi le proprie radici in questioni esclusivamente di economica linguistica: in latino, infatti, le desinenze del genere grammaticale maschile erano spesso molto più simili a quelle del neutro rispetto alle desinenze femminili; con la scomparsa del terzo genere e con la caduta della declinazione del caso nei nomi e negli aggettivi, le desinenze neutre sono state assorbite dagli altri due generi, finendo in quasi la totalità dei casi sotto l’egida del maschile.

Grammaticalmente parlando, insomma, la questione dell’utilizzo del maschile sovraesteso pare essere di natura strettamente linguistico-storica, e non sociale, nonostante su quest’ultimo piano sia possibile riconoscerne delle ricadute. La stessa Università di Trento, forse inconsapevolmente, pare riconoscere la natura puramente politica della sostituzione del maschile indifferenziato con il femminile sovraesteso: nel comunicato stampa si legge infatti come la seconda ragione per cui è stato preferito il femminile al maschile sia di natura più vicina al sociale, tanto che il nuovo regolamento viene definito “una scelta che ha una valenza fortemente simbolica”. Lo stesso senso di straniamento di cui parla il Rettore, che afferma di essersi «sentito escluso» dal documento, non fa che confermare la valenza fortemente politica della decisione. È per tale motivo che l’iniziativa dell’Università di Trento, che con essa intende farsi portatrice non di una grammatica nuova, ma di ideali e battaglie sociali, politiche e civili, stride con la recente condotta dell’ateneo nei riguardi delle richieste di una quarantina di membri del personale, che hanno scritto al Rettore chiedendo il ritiro dell’Università dalla partecipazione al bando MAECI. Fregiarsi del titolo d’alfieri di battaglie politiche e sociali, ignorando dall’altra parte le richieste di interessamento in una delle tematiche politicamente e socialmente più rilevanti degli ultimi mesi, risulta in tal caso contraddittorio, e sembrerebbe più rivolto ad ingraziarsi una fetta di opinione pubblica, che a una reale volontà nell’affermare gli ideali di rispetto e uguaglianza.

[di Dario Lucisano]

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