Nella sera tra oggi e sabato 13 aprile, l’Iran ha lanciato il tanto atteso attacco di rappresaglia nei confronti di Israele, sorto in risposta agli eventi di lunedì 1 aprile, data in cui Tel Aviv ha attaccato la sede del consolato iraniano in Siria, uccidendo l’ambasciatore della Repubblica Islamica Mohammad Reza Zahedi. La Missione Permanente dell’Iran nelle Nazioni Unite ha spiegato all’ONU le ragioni di Teheran, invocando il proprio diritto all’autodifesa come sancito dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, a cui la Repubblica Islamica sarebbe ricorsa a causa della violazione da parte di Tel Aviv dell’articolo 2 comma 4 del medesimo Statuto. Contrariamente a quanto pare emergere dalla maggior parte delle analisi dei media, lo scenario che si viene a formare dopo questi avvenimenti è tutt’altro che certo. I limitati danni causati dallo scenografico attacco iraniano sembrano infatti celare una velata intenzione da parte di Teheran di volere portare avanti un dovuto atto dimostrativo, piuttosto che un (fallito) tentativo nel colpire aggressivamente lo Stato di Israele. Quello che risulta certo è che ora la palla è nelle mani di Tel Aviv, che può decidere se rispondere con una ulteriore azione di rappresaglia o se tornare indietro e riprendere quella celata guerra per procura che mette i due Paesi a confronto da diversi anni.
A quanto comunica il Luogotenente Colonello Peter Lerner, portavoce delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), l’azione di ritorsione iraniana avrebbe visto lanciati 180 droni esplosivi, 120 missili balistici, e 30 missili da crociera, di cui il 99% sarebbe stato intercettato con l’ausilio anche degli alleati britannici, francesi e statunitensi. Sempre da quanto riportano le IDF, i danni causati a persone e infrastrutture sarebbero risultati così alquanto contenuti: visti i limitati danni alle infrastrutture e le zero vittime, sembrerebbe che la reale intenzione dell’Iran fosse quella di mostrare i muscoli e portare avanti una azione di ritorsione abbastanza mediaticamente forte da costituire una risposta efficace e proporzionata all’attacco subito a inizio mese, senza tuttavia giustificare una immediata reazione aggressiva da parte di Tel Aviv, ipotesi che sarebbe convalidata dalle dichiarazioni della Missione Permanente ONU, che ha definito chiusa la questione.
Questa ipotesi sarebbe rafforzata anche da uno dei pochi elementi che a ora risulta concreto: la palla è nel campo di Israele. Le questioni belliche sono infatti spesso intrise della logica del botta e risposta, secondo cui a un attacco di una portata specifica si debba rispondere con un attacco intensivamente analogo, e non eccessivamente sproporzionato all’offesa subita. Lo hanno fatto gli USA nei confronti di obiettivi filoiraniani, e pare averlo appena fatto l’Iran nei confronti di Israele. Con le dichiarazioni da parte della Missione Permanente, l’Iran sembra in questo senso volere passare il turno a Tel Aviv, facendole scegliere se accettare il pareggio o portare avanti la partita. Dal canto suo Israele potrebbe infatti accettare il pari rivendicando la sua vittoria nell’essere riuscita a difendersi dal primo attacco della storia della Repubblica Islamica sul proprio territorio – come suggerito dal Presidente degli Stati Uniti Joe Biden –, oppure decidere di alzare la posta in gioco. Nello specifico la prima sarebbe la soluzione suggerita da Biden stesso a Netanyahu, nonché, sottolinea il portavoce del Consiglio di Sicurezza John Kirby, quella da lui più auspicata, tanto che da quanto comunica il sito di informazione Axios citando una fonte interna alla Casa Bianca, il Presidente degli USA avrebbe detto a “Bibi” che Washington non supporterà Tel Aviv in caso di ulteriore risposta di natura offensiva.
Nonostante l’universale condanna, i Paesi del G7 non sembrano a ora volere considerare l’opzione di una possibile escalation in Medio Oriente, ma non è ancora chiara quale sia la posizione di Israele. Come sottolineato da Luigi Toninelli, analista per l’ISPI, dopo tutto, il tempismo con il quale Israele ha deciso di attaccare un organo diplomatico dello Stato iraniano risulta particolarmente curioso, in quanto parallelo al ritiro delle IDF dalla città di Khan Younis nella Striscia di Gaza. Non è insomma così evidente se le reali intenzioni di Israele siano quelle di allargare il conflitto anche all’Iran, come parimenti non è così limpido come sembra, che la volontà iraniana fosse solo quella di portare avanti un atto dimostrativo: passare la palla non significa infatti necessariamente limitarsi a dimostrare le proprie capacità balistiche e “offrire il pareggio”, ma può anche essere un modo per provocare Tel Aviv e portarla a rispondere all’attacco, come del resto Toninelli ritiene abbia fatto lo Stato ebraico stesso il 1 aprile. A riprova di ciò ci sarebbe secondo molti la corsa all’armamento nucleare che l’Iran starebbe portando avanti da mesi, cosa peraltro confermata dalla stessa Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ma anche la minaccia di ritorsione più rapida e più intensa in caso di un successivo attacco: il Generale dei pasdaran Hossein Salami ha infatti definito la “Operazione Promessa Veritiera” come un successo inaspettato, sottolineando con toni di velata intimidazione il fatto che l’Iran ha portato avanti una azione particolarmente limitata rispetto alla sua capacità bellica.
Iran e Israele, infatti, sebbene non formalmente, sono in guerra da anni e si contendono il ruolo di egemone nell’area mediorientale. A partire dagli anni ’80 dopo il rovesciamento dello Scià e l’accesa al potere del Grande Ayatollah Khomeyni, Teheran si è posta come importante punto di riferimento per i movimenti di ispirazione islamica dell’area e ha smesso di riconoscere la legittimità di Israele, con cui ha anche tagliato le relazioni di natura diplomatica. L’Iran porta avanti da anni, in maniera indiretta, tramite gruppi affiliati alla sua rete, azioni di rappresaglia nei confronti di Israele che agisce esattamente alla stessa maniera, senza mai rivendicare i propri attacchi. Al di là delle questioni partitiche, insomma, i due Paesi si pestano i piedi a vicenda da anni, a volte anche sotto forma di guerre o attacchi per procura come nel caso degli scontri in territori terzi tra IDF e forze filoiraniane come Hezbollah. A complicare ancora di più la situazione è la presenza statunitense sul territorio mediorientale, che spesso è stata fonte di scontri indiretti e che nel 2020 ha portato a un confronto diretto con Teheran a causa dell’uccisione del generale Soleimani presso l’aeroporto di Baghdad. L’uccisione di Mohammad Reza Zahedi risulta la perdita di maggior livello vissuta dall’Iran dal 2020, e per tale motivo ha curvato ancora di più il piano inclinato su cui poggiano gli equilibri tra Israele e Iran, che a ogni azione di rappresaglia si storta sempre di più.
Oggi pomeriggio è iniziato l’incontro tra i vertici del G7 per parlare della questione; Israele ha richiesto, e ottenuto, un incontro del Consiglio di Sicurezza ONU, e sta tenendo da qualche ora un incontro del gabinetto di difesa. Il Ministro della Difesa Yoav Gallant ha parlato della opportunità di creare una alleanza contro l’Iran e ha detto che Israele esigerà un prezzo dall’Iran nelle tempistiche e modalità in cui vorrà. Non si può ancora sapere con certezza a che punto sia arrivata la stortura del piano inclinato, ma che si torni indietro alla situazione di partenza o che si punti a una escalation, la questione, come non è iniziata il primo di aprile, non finirà nella notte di ieri.
[di Dario Lucisano]
A proposito di “gioco” ma avete notato come l’evento è stato presentato sui media nazionali di obbedienza al sistema? Nessuno ha parlato di lanci nel deserto, si è insistito sulla tensione in Israele e sulla solidarietà internazionale all’aggredito. Splendide le note dove, rammentando di sfuggita l’attacco precedente in Siria, si ometteva regolarmente il nome di chi lo aveva prodotto… Certo l’Iran poteva fare anche una processione religiosa o lanciare ore di preghiera nelle moschee. Avremmo bisogno che una religione mostrasse un orizzonte e un metodo di non violenza. Sarebbe servito anche ad Israele che dall’olocausto non ha appreso nulla, anche perché il sionismo, radice fondante di tutta questa notte oscura, nasce ben prima della tragedia nazista.
Articolo utile ma salta all’occhio l’utilizzo di un certo linguaggio che tratta le azioni belliche come schemi di gioco. Pareggi, partita.. questo linguaggio, ormai assimilato dalla politica continuo a non sopportarlo (come ben esternava Moretti trent’anni fa!), tanto più se parliamo di scenari di guerra, perché di quello si parla. La guerra e le sue prove non sono un gioco, e forse anche questo la dice lunga su come impariamo a normalizzarla.