È trascorso ormai un anno dallo scoppio della guerra civile in Sudan, una delle più violente degli ultimi anni, dimenticata però dall’opinione pubblica e dai principali media occidentali e del mondo. Con le agende giornalistiche monopolizzate dalla situazione in Ucraina e in Medio Oriente, di quanto succede nel lontano e povero Sudan si parla poco, nonostante i combattimenti abbiano provocato almeno 15.000 morti e la nazione stia attraversando una delle crisi umanitarie peggiori della storia recente, secondo quanto riferito dalle Nazioni Unite: la guerra, infatti, ha affamato la popolazione, costringendo, secondo i dati forniti da Amnesty International, dieci milioni e mezzo di persone ad abbandonare le loro case, innescando ondate di omicidi e violenze sessuali su base etnica nella regione del Darfur, nel Sudan occidentale, soprattutto nei confronti della comunità non araba dei Masalit. Fino ad ora non vi sono state iniziative significative da parte della cosiddetta “comunità internazionale” per risolvere la crisi e i pochi tentativi di mediazione non hanno sortito alcun effetto. Solo ieri si è aperta a Parigi una conferenza umanitaria sul Sudan, organizzata da Francia, Germania e Unione Europea, con l’ambizioso obiettivo dichiarato di «rompere il silenzio» sulla guerra dimenticata, raccogliere più di un miliardo di euro in donazioni e coordinare la mediazione per porre fine al conflitto. Dichiarazioni che andranno come sempre verificate sulla base dei fatti concreti che seguiranno alle promesse.
Il Sudan è il terzo paese più grande dell’Africa per estensione territoriale. Ricco di risorse naturali e crocevia strategico fra Mar Rosso, Corno d’Africa e Sahel è una zona d’interesse per molti attori regionali e globali anche per le conseguenze che può avere sui flussi migratori. Il conflitto iniziato il 15 aprile del 2023 è stato causato dalla rivalità tra due fazioni militari prima “alleate” che governavano insieme la nazione, attraverso una giunta militare chiamata Consiglio Sovrano: si tratta delle forze armate sudanesi (SAF) guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan e delle Rapid Support Forces (RSF) – Forze di supporto rapido – comandate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (detto Hemetti). Dal 2019, la capitale Khartoum è attraversata da forti sconvolgimenti politici: quell’anno la mobilitazione di massa della società civile sudanese ha portato alla rimozione del dittatore Omar al-Bashir, segnando la fine di uno dei regimi al potere più longevi in Africa. Al-Bashir fu sostituito da Abdollah Hamdok, sostenuto dagli Stati Uniti, che avrebbe dovuto guidare il Paese verso una transizione democratica che però non si è mai realizzata. La sua amministrazione, infatti, era caratterizzata da forti tensioni tra gruppi civili e militari, quest’ultimi in buona parte ancora fedeli al regime precedente. Così, nel momento in cui il nuovo capo sostenuto dagli USA promosse una riforma dell’esercito per epurare le forze militari rimasti fedeli all’ex regime, tra cui le RSF, quest’ultime hanno preso il potere per mezzo di un golpe avvenuto il 25 ottobre 2021. Da quel momento, il generale al-Burhan ha interrotto la “transizione democratica”, istituendo il Consiglio Sovrano di cui era a capo con Dagalo secondo in comando. L’alleanza tra i due, però si è interrotta quando il primo, accettando un accordo internazionale per restituire il potere a un’amministrazione civile in cambio di aiuti economici, ha deciso di fare confluire le RSF nell’esercito regolare sudanese. Una decisione avversata da Degalo che temeva di perdere il suo potere. Da allora le due fazioni si combattono cruentemente senza alcun riguardo per la popolazione civile.
Secondo quanto dichiarato da Amnesty International e Sudan Democracy First Group, la risposta della comunità internazionale continua a essere tristemente inadeguata nonostante il numero delle vittime civili sia in aumento in tutto il paese. L’Integrated Food Security Phase Classification, un indice di sicurezza alimentare riconosciuto a livello mondiale, ha segnalato che il numero di sudanesi che affrontano livelli di emergenza di fame – uno stadio prima della carestia – è più che triplicato in un anno arrivando a quasi cinque milioni. In alcune zone del Paese, ad esempio nella città di Omdurman, le persone hanno paura di lasciare le proprie case per paura di molestie e percosse da parte delle RSF e anche per questo non riescono a procurarsi del cibo, come testimoniato da alcuni residenti. Inoltre, gli impianti elettrici e idrici sono stati danneggiati durante i combattimenti privando i residente dell’energia elettrica e dell’acqua corrente.
Il direttore di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale ha dichiarato che la popolazione sudanese è abbandonata e ignorata e che «L’azione diplomatica non ha posto fine alle violazioni, non ha protetto i civili, non è riuscita a far arrivare sufficienti aiuti umanitari e non ha chiamato i responsabili di crimini di guerra a rispondere delle loro azioni». Tra gli obiettivi della conferenza avviata ieri a Parigi c’è proprio quello di esercitare pressioni sui belligeranti affinché forniscano aiuti umanitari e di accordarsi su una risposta internazionale. Sono assenti, però, le fazioni sudanesi in guerra che non sembrano avere alcuna intenzione di cessare le ostilità. L’esito della guerra è ancora molto incerto perché nessuna delle due parti è vicina a una vittoria o a una sconfitta netta e questo rende il conflitto ancora lungo con il rischio di una carestia per i civili. Le fazioni sono restie a trattative e mediazioni: gli ultimi negoziati a Gedda (Arabia Saudita) sono falliti. Dovrebbero riprendere nei prossimi giorni nella stessa sede, ma con poche speranze per una svolta e un cessate il fuoco.
[di Giorgia Audiello]