Un gran numero di giacche a vento per bambini attualmente in commercio contengono PFAS – sostanze perfluoroalchiliche prodotte dalle industrie e associate a numerose patologie, tra cui alcune forme tumorali – in quantità maggiori rispetto ai limiti imposti dai parametri dell’Unione Europea. È quanto emerge da uno studio effettuato da un consorzio di 15 organizzazioni ambientaliste internazionali, tra cui spicca l’Associazione tedesca per la protezione dell’ambiente e della natura (BUND). I risultati della ricerca, condotta su 56 giacche outdoor per bambini e 16 altri campioni di abbigliamento, tra cui grembiuli, magliette, costumi da bagno e pantaloni, provenienti da diversi Paesi del mondo, hanno infatti mostrato come ad essere contaminato da PFAS sia 63% dei capi testati. Fra questi, il 29% supera le soglie consentite dalle autorità europee.
La ricerca svolta dalle associazioni ambientaliste sui capi per bambini ha messo in luce disparità a livello regionale nella presenza di PFAS. Ad essere maggiormente contaminati sono infatti risultati i capi che provengono dai Paesi dell’Europa dell’Est e dall’India, mentre la percentuale di PFAS si abbassa nel caso degli indumenti che arrivano dall’Europa Centrale e dalla Scandinavia, dove vi è maggiore attenzione per l’utilizzo di prodotti sostenibili. I capi oggetto dell’analisi erano destinati a vari paesi del mondo, molti dei quali nel nostro continente, come Germania, Polonia, Paesi Bassi, Repubblica Ceca, oltre al Regno Unito. A ogni modo, gran parte dei brand vendono i loro prodotti su tutto il territorio europeo. Il dato più allarmante riguarda il fatto che la tipologia di PFAS presente in maniera più massiccia all’interno dei campioni – essendo stato rinvenuto in ben 17 giacche – è quella dei PFOA, sostanza chimica dalla elevata tossicità vietata nell’Unione Europea dal 2020. In una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica The Lancet Oncology, un’équipe di trenta scienziati dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) ha dimostrato come i PFOA siano cancerogeni per gli esseri umani “sulla base di prove sufficienti di cancro negli esperimenti sugli animali e di prove meccanicistiche forti nell’uomo esposto”. Si parla, nello specifico, di un rapporto causa-effetto tra la presenza di PFOA nel sangue, nei tessuti e negli organi dei soggetti contaminati e le patologie da essi sviluppate.
L’allarme sulla diffusione degli PFAS risuona ormai da tempo e importanti novità emergono in maniera progressiva, in particolare grazie a studi scientifici che stanno approfondendo il tema della diffusione degli PFAS e della loro pericolosità. Il mese scorso, un report comparso su Environmental Science & Technology (ES&T) – che ha armonizzato quanto attestato da ben 47 ricerche in molti Paesi del mondo – ha reso noto che all’interno di imballaggi alimentari e molti altri materiali che vengono posti direttamente a contatto con il cibo sono state trovate ben 68 tipologie di PFAS, 61 delle quali “inaspettate”, in quanto non autorizzate per l’utilizzo nelle specifiche confezioni. In larga parte dei casi, precisamente il 72,5%, gli PFAS sono stati trovati nella carta e nel cartone, ma essi sono stati identificati anche all’interno di imballaggi in plastica, nonché in metalli rivestiti. In Italia, nel 2013 è stato riscontrato uno dei casi più gravi di contaminazione da PFAS dell’intero continente europeo tra le provincie venete di Padova, Verona e Vicenza, mentre qualche mese fa in Lombardia è stata scoperta da Greenpeace una grave contaminazione. Più di recente, è stata attestata dall’Organizzazione la contaminazione delle acque di oltre 70 centri in Piemonte e, in ultimo, in quelle della Toscana.
[di Stefano Baudino]