Un lungo rapporto pubblicato dallo studio di avvocati Amsterdam & Partners ha accusato la multinazionale americana Apple di acquistare minerali chiave per l’elettronica, come coltan, tantalio, tungsteno e stagno da fornitori che hanno sede in Ruanda. Il fatto è che il paese africano è in realtà sostanzialmente privo di questi minerali e li ottiene saccheggiando la vicina Repubblica Democratica del Congo (Rdc), tramite il finanziamento di milizie che controllano le miniere di estrazione e le vie lungo le quali i materiali vengono trasportati. Arrivate in Ruanda le pietre grezze vengono “ripulite” e immesse nel mercato globale. L’indagine, intitolata “Minerali insanguinati. Tutti vendono i massacri nel Congo orientale, ma tutti tacciono” ricostruisce questo commercio illegale, foriero di un conflitto di dimensioni ormai colossali, alimentato da almeno 120 gruppi armati e che solo negli ultimi tre mesi ha causato la fuga di quasi 300 mila persone dalle proprie case. Una guerra di saccheggio che si propaga nel silenzio complice e interessato della cosiddetta comunità internazionale e delle grandi aziende che utilizzano questi materiali.
Nel giro illecito di saccheggio, riciclaggio e lavaggio di queste risorse compaiono molti intermediari occidentali, proprietari o soci di grandi compagnie internazionali di estrazione. In una lettera diretta all’amministratore delegato di Apple, Tim Cook, Amsterdam & Partners ha chiesto alla big tech di smettere di usare i minerali che vengono illegalmente sottratti dalle riserve minerarie della Rdc, minacciando provvedimenti legali se ciò non dovesse avvenire. Insieme alla lettera dello studio legale, un team di esperti ingaggiati dal governo di Kinshasa – capitale della Repubblica Democratica del Congo – ha inviato, alla sede francese di Apple, una serie di domande riguardo la catena di approvvigionamento della big tech, chiedendo delle risposte entro e non oltre tre settimane. Ci sono voluti pochi giorni per la prima risposta dall’azienda americana che, come prevedibile, ha negato ogni colpa, dichiarando: «sulla base dei nostri controlli non abbiamo trovato alcuna ragionevole evidenza per concludere che una qualsiasi delle fonderie o raffinerie di stagno, tantalio e tungsteno presente nella nostra catena di fornitura al 31 dicembre 2023, direttamente o indirettamente, abbia finanziato o avvantaggiato gruppi armati nella Rdc o in un paese confinante».
Quello che la big tech ha omesso di ricordare nella dichiarazione a proprio discapito è che gli organi adibiti al controllo della provenienza di questi minerali, come l’Itsci (Tin Supply Chain Initiative), sono gestiti delle medesime compagnie minerarie. Nelle 50 pagine redatte dallo studio legale si parla di un sistema di controllo «fraudolento» che come obbiettivo ha il mantenimento della catena illegale, piuttosto che il controllo della provenienza dei minerali.
Il portavoce del governo di Kinshasa, Patrick Muyaya, a febbraio ha fatto notare che «il sottosuolo ruandese non è pieno di questi materiali e trae i suoi minerali dalla Rdc». Nel 2023 il Ruanda, nonostante non abbia una grande quantità di giacimenti di tantalio, figura come il paese di provenienza del 15% del commercio globale di questo minerale. Gli Usa per esempio coprirebbero il 36% del loro fabbisogno di tantalio tramite esportazioni da Kigali e solo il 7% dalla Rdc, che però è il paese che detiene la maggiore quantità di riserve. Stando poi ai dati di Ecofin agency, nel 2023 il Ruanda è stato il maggior esportatore di coltan al mondo, lasciando alla Rdc il secondo posto, ma anche in questo caso le riserve ruandesi di questo minerale sono assai inferiori di quelle di Kinshasa. A sostegno dell’accusa della provenienza illegale del coltan c’è anche un report di Enact, un’iniziativa finanziata dall’Unione Europea e nata della collaborazione fra Global Initiative, Interpol e l’Istitute for Security Studies, dove viene provato che molto del coltan venduto dal Ruanda arriva in maniera illegale dalla Rdc. Report e indagini non hanno però fermato l’Unione Europea dal firmare un accordo, a marzo, per l’esportazione di coltan proprio dal Ruanda.
Oggi le tensioni tra Kigali e Kinshasa sono sul punto di esplodere, con la possibilità di arrivare a uno scontro diretto tra i due paesi. Nelle regioni orientali della Rdc, ricche di giacimenti, sono presenti più di 120 gruppi armati che competono tra loro e con le forze regolari di Kinshasa per il controllo dei siti di estrazione. Ma di queste milizie, il movimento M23 è quella che più di tutte sta minacciando l’integrità territoriale della Rdc. Qualche giorno fa il portavoce della milizia ribelle, Willy Ngoma, ha fatto sapere che la città di Rubaya, una delle più importanti città minerarie del Nord Kivu è ad oggi sotto il controllo dell’M23. Anche se il governo congolese non ha confermato la notizia. Diversi report delle Nazioni unite e indagini indipendenti hanno accertato l’appoggio di Kigali all’M23, accuse sempre negate con forza dall’esecutivo ruandese. Francia, Usa e Onu hanno chiesto a più riprese al Ruanda di cessare il finanziamento e il sostegno a questa milizia che dal 2022 ha ricominciato la sua avanzata su Goma, capoluogo del Nord Kivu.
Nelle regioni nell’est della Rdc la guerra non si ferma oramai da 30 anni e l’avanzata dell’M23 ha portato i campi profughi alla periferia di Goma a raddoppiare il numero di sfollati arrivando a quasi un milione di persone; solamente da metà febbraio ad oggi più 280mila congolesi hanno lasciato le proprie case a causa degli scontri tra i gruppi ribelli e gli eserciti schierati sul campo. In Rdc si contano complessivamente più di 7 milioni di sfollati interni, la maggior parte provenienti da luoghi di conflitto. 10 giorni fa Ramesh Rajasingham, direttore del coordinamento presso l’Ufficio umanitario delle Nazioni Unite, in vista a Goma, ha detto di aver trovato una situazione «straziante». Il World food program ha stimato che quasi un quarto dei 23.4 milioni di cittadini della Rdc, sta affrontando una grave crisi alimentare non avendo accesso regolare a cibo e acqua. Le violenze verso la popolazione civile sono all’ordine del giorno: violenze sessuali, pagamento di tasse di movimento alle milizie, sfruttamento di donne e minori nelle miniere e massacri arbitrari.
Una situazione che, alla luce delle evidenze del contrabbando illegale di minerali, mette in chiaro che «la guerra nell’est della Rdc è principalmente economica e il commercio illecito di minerali è una delle cause principali delle violenze» come ha detto il premio nobel Denis Mukwege, interrogato a febbraio sull’accordo tra Ue e Ruanda circa l’esportazione di minerali.
[di Filippo Zingone]
Adesso mi è più chiaro perchè la commissione economica americana ha puntato il proprio accento proprio sulla necessità di riconquistare potere in Congo.