giovedì 21 Novembre 2024

La Somalia ha chiesto il ritiro della missione ONU dal Paese

Il ministro degli Esteri della Somalia lo scorso 5 maggio ha inviato una lettera al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite chiedendo il ritiro della Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Somalia (UNSOM), composta da 360 membri, ritenendola non più utile. La richiesta, che arriva sei mesi prima della scadenza naturale della missione politica, ha colto la stessa di sorpresa, secondo quanto dichiarato da funzionari delle Nazioni Unite e si inserisce nel più ampio processo di allontanamento dai territori africani delle missioni e degli eserciti occidentali. Anche il Niger e il Ciad, ad esempio, hanno chiesto negli scorsi mesi la fine della collaborazione con le truppe americane e la loro dipartita dalle basi che controllavano nei due Paesi. La missione ONU in Somalia era attiva dal 2013 e aveva l’obiettivo di fornire consulenza al Paese del Corno d’Africa sulla costruzione della pace e sulle riforme della sicurezza, oltreché di assicurare il rispetto dei valori democratici. L’intervento delle Nazioni Unite si era reso necessario per fronteggiare la grave situazione umanitaria e politica in cui versa la nazione dal 1991, anno in cui è esploso un conflitto civile che ha dilaniato la Somalia, caratterizzato peraltro da un’insurrezione ventennale da parte di militanti legati ad al Qaeda. Nonostante le autorità somale abbiano adottato misure per ripristinare i servizi e aumentare la sicurezza, la nazione del Corno d’Africa, composta da 17 milioni di abitanti, rimane tra le più violente e povere del mondo.

Non si sa molto circa i motivi che hanno spinto il governo somalo a chiedere il ritiro della missione politica delle Nazioni Unite, in quanto, nella lettera, il ministro degli Esteri Aimed Moa Fiji non ha fornito spiegazioni, limitandosi a sottolineare come «sia ora opportuno passare alla fase successiva del nostro partenariato». Un consigliere presidenziale somalo, invece, ha affermato che il Paese non ha più bisogno del sostegno delle Nazioni Unite per coordinarsi con la comunità internazionale come accadeva con l’UNSOM. Alcune informazioni aggiuntive sono state fornite dall’analista somalo e cofondatore del think tank Sahan, Matt Bryden, secondo il quale il governo federale aveva precedentemente accusato l’UNSOM di interferire negli affari interni. Infatti, se da un lato, il presidente Hassan Sheikh Mohamud ha lavorato per una maggiore centralizzazione dell’autorità anche attraverso modifiche alla costituzione del Paese e altre riforme, dall’altro, la missione politica dell’ONU ha cercato di trovare una mediazione tra le istanze centraliste del governo e il desiderio dei singoli Stati per una maggiore autonomia. «Dovremmo aspettarci iniziative più assertive e unilaterali del FGS (governo federale della Somalia) rispetto alle revisioni costituzionali, al federalismo e alle elezioni», ha affermato l’analista.

Oltre alla scadenza anticipata della missione UNSOM, è prevista anche la fine di un altro programma che fa capo all’ONU per il mantenimento della pace, vale a dire la Missione di Transizione dell’Unione Africana in Somalia (ATMIS), di cui il governo somalo ha chiesto il ritiro nel 2022 e che è ora previsto per la fine del 2024. Istituita nel 2007, ATMIS aveva lo scopo di assistere il governo federale nella sua guerra contro al-Shabab, il gruppo armato legato ad al-Qaeda che controllava quasi tutti i territori della Somalia centro-meridionale. La missione è composta da circa 22.000 soldati provenienti dall’Uganda, dal Burundi e dai vicini Kenya, Etiopia e Gibuti. In collaborazione con le forze di sicurezza somale, i soldati delle forze dell’Unione Africana (UA) hanno spinto i militanti del gruppo terrorista nelle aree rurali e, allo stato attuale, al-Shabab controlla principalmente solo quelle. Tuttavia, le operazioni per sconfiggere il gruppo negli anni hanno comportato l’uccisione di migliaia di civili e, con l’inizio del graduale smantellamento della missione, si è cominciato a discutere del suo reale successo: «Sebbene apprezziamo gli sforzi delle forze dell’UA, quando furono schierate speravamo che avrebbero portato stabilità in tutto il paese poiché i civili, soprattutto donne e bambini, hanno sofferto maggiormente il conflitto, ma sfortunatamente non è cambiato molto», ha detto Batulo Ahmed, presidente dell’Associazione delle donne somale.

Tuttavia, il rischio è che la fine della missione ATMIS lasci un vuoto di sicurezza, in quanto l’esercito somalo non è un esercito professionale ed è diffusa la convinzione che la nazione del Corno d’Africa sia lontana dall’avere una forza nazionale veramente efficace. Secondo Mohamed Mubarak, presidente dell’Hiraal Institute, un think tank sulla sicurezza con sede a Mogadiscio, la nazione non sarà in grado di finanziare le proprie forze nel prossimo futuro e continuerà a fare affidamento sul sostegno esterno, anche dopo il ritiro dell’ATMIS. Nonostante le difficoltà interne dello Stato africano, l’intenzione del governo di Mogadiscio è chiaro: riaffermare la sovranità del Paese contro le ingerenze esterne e lavorare per ottenere un esercito nazionale unificato e non composto da milizie clan come allo stato attuale. Un obiettivo, soprattutto quello di riaffermare la sovranità espellendo le forze straniere dai territori africani, che accomuna in questo periodo molti Stati del Continente nero – specie nella fascia del Sahel – desiderosi di acquisire la propria indipendenza e di liberarsi dall’imperialismo mascherato delle potenze occidentali.

[di Giorgia Audiello]

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