Di luglio, al lungo sole della sera
le case stanno appese
in un silenzio d’arnia dopo il volo.
Ragazzi se ne vanno alti leggeri
giù per la via. Farfalle
svolano le ragazze.
All’ombra delle tende azzurre gialle
approda il vecchio. Siede,
guarda intorno la scena: mitemente
nel suo castello d’ossa si consola
di farne ancora parte.
Ma l’anima – è in disparte.
(da F. Romagnoli, La folle tentazione dell’eterno, Interno Poesia 2022).
Nella fisica della poesia le mele non cadono dagli alberi per mostrare la legge di gravità. Stanno appunto appese, anche le case, come nei sogni dove il terreno inconsistente dimostra che è necessario staccarsi da terra per scrivere, per immaginare, per amare ciò che crediamo di vedere. Vediamo in effetti soltanto miti, stereotipi, raffigurazioni già note, cadenze dell’identico che ci industriamo a variare, a colmare di impazienza.
Il pensiero «saetta parole», cantava lo stilnovista Dino Frescobaldi, «un lume passa nella mente», lui che forse era innamorato più della sua canzone che della sua donna, più dell’alveare che delle api che erano scomparse, come una ragazza inquieta, quella che, ricordava Cesare Pavese, in «un’estate di voci» girava per le strade finché non fosse stata «stanca morta».
La vecchiaia invece è già stanca, in quel dualismo per cui l’anima è come già in un altrove, mentre la mente scava nel passato e anch’essa si separa, lasciando il corpo in attesa. Come i ciottoli e l’onda sulla riva, cantava Shakespeare in un suo sonetto, i ciottoli e l’onda che si appartengono soltanto quell’attimo in cui si toccano, per poi riprecipitare più avanti verso la fine: «our minutes hasten to their end».
Il tempo è pieno di colori, si ingorga la metafisica della natura che si fa sottile, che si mette a ballare come una farfalla, a svolazzare come una tenda, quasi fosse sopraggiunto il vento mentre il regista, cioè il poeta, sta girando la scena. Il diventare aereo, l’essere farfalla sa appunto di anima, mentre le ossa mostrano bene l’aderenza del corpo come un castello che non fa fatica a resistere ma che è disabitato, come il tempo che si muove nonostante. «Le risa delle luci/ gli applausi fitti come bosco in fiamme/ non erano per me», canta altrove Fernanda Romagnoli: e lì è lei che se ne sta “in disparte”, lei come un’anima, la poesia come parole sospese pronte a diventare il corpo saldo di un fantasticare.
La poesia ha sempre come protagonista se stessa e la morte, come nota Keats scrivendo al fratello George, non è abbandonare una “forma terrena e ottusa” ma è la fine stessa di quei versi. Quando il poeta smette di scrivere, la sua vita è davvero finita, l’illusione delle parole si trasforma in un ascolto assoluto, in un flatus vocis, in un oracolo, nel “germe vitale di ogni essere”, nell’espressivo “soffio che fa vibrare l’intero universo” (C. Bologna).
[di Gian Paolo Caprettini]
Grazie G.P.C.
E’ un a bella giornata se la poesia la illumina.
E questo scritto lo puoi accartocciare o bruciare, ma sarebbe come prendere a martellate il Virus della poesia: non la cancelli. E’ impossibile, vivrà sempre finché ci sarà un lungo sole la sera, farfalle, tende azzurre gialle o anche solo un semplice castello d’ossa…