Diceva Elettra nella omonima tragedia di Sofocle: «Se voglio continuare a vivere libera, devo ubbidire ai potenti». In realtà la parola greca lì usata esprime obbedienza a chi ha forza non a chi ha potere. Nelle nostre origini indoeuropee l’idea di potere deriva appunto da quella di forza, esprimendo più potenza che potere; il greco kràtos cioè, come ricorda Benveniste ne Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, tratta della facoltà di averla vinta in una prova di forza; attenzione, però, si tratta di una condizione momentanea perché il kràtos, la forza del potere, finita la sua dimostrazione, la sua supremazia, può essere messa successivamente in questione, avvicendandosi altri scontri, altre prevalenze. La superiorità tuttavia non si dimostrava soltanto nel combattimento ma poteva trovare espressione nell’assemblea, nella discussione pubblica, producendo la autorevolezza del re o del capo.
Il potere, dunque, alle sue origini nella nostra cultura ha a che fare sia con la prestanza fisica sia con la preminenza nel campo della parola, delle argomentazioni. Ma si sa le prove di forza hanno un termine e così pure i bei discorsi finiscono prima o poi.
Dunque il potere è transitorio, discontinuo. Il potere sta nel vuoto. James Hillman nel suo lavoro Il potere. Come usarlo con intelligenza ne parla come di un contenitore, come di una pentola, un vaso, una brocca. Che cosa contiene il potere, che cosa custodisce, che cosa esprime? Se esprimesse soltanto energia sarebbe destinato a scemare, a perdersi, a svanire. Ma se contiene non soltanto forza e prestanza ma si estende anche alle regioni del sentimento e dello spirito, allora il potere produce quella vicinanza, quella sintesi tra pensiero e azione indispensabile nel funzionamento della nostra società.
Ecco allora spuntare le strategie per evitare che il potere sia transitorio, discontinuo. Occorrono, osserva Hillman, dei principi stabilizzanti: ad esempio, infondere paura, intimorire, come sentimento non ansiogeno soltanto ma permanente, quasi vicino alla devozione. «Qualcuno ha scoperto che la via al piacere passa per la paura… Se non si accetta di prendere in considerazione l’idea che mettere paura dà piacere, non si riuscirà mai a cogliere tutta la profondità del potere»(p. 213). Poi Hillman aggiunge che sono proprio i nostri schemi archetipici, indoeuropei a impedirci di pensare a un potere che non sia più fondato sulla subordinazione, un potere non più scaturito dall’oppressione e dal controllo, un potere che sia come il pensiero diversificato e plurale, dove amore e potere non sono più in opposizione. «Una volta abbandonata l’idea ossessiva di un unico centro e l’idea di ordine come unità, le cose non possono più veramente cadere a pezzi» (p. 283).
La dittatura del sì non funziona, tuttavia, mediante le prescrizioni e i divieti. Funziona meglio con l’abitudine, è efficace in quanto “dittatura dell’ovvio”, osserva Byung-Chul Han in Che cosa è il potere? (pp. 58-59); agisce mediante la soggezione degli altri, priva della sovranità personale (come si è notato ad esempio nel periodo della pandemia). Il potere raggiunge un alto livello di stabilità – aggiunge Han – quando si inscrive nella quotidianità, nella continuità, negli automatismi della consuetudine.
Ecco perché la tolleranza, la disponibilità ad accettare traggono la loro ragion d’essere da un potere temporaneo, da una rappresentanza politica che ha le sue scadenze, che ha i suoi tempi prestabiliti. La stessa idea di decisione fa intervenire una discontinuità, una novità sull’orizzonte, aprendo ovviamente a nuove prove di forza ma nella consapevolezza che anche il ring dei pugili ha le sue regole e i suoi tempi.
Il tempo, le sue scansioni, le sue durate, i suoi esordi e le sue scadenze, le sue albe e i suoi tramonti restano inevitabilmente garanzie di libertà, di future dead line, quasi come i prodotti di consumo destinati a esaurirsi dopo un certo periodo. La parola ‘tempo’ deriva dal concetto greco di ‘dividere, tagliare’. Un potere accettabile è alleato dunque della discontinuità, dell’alternanza e dell’alternativa, della condivisione, del ritmo, della musica insomma imposta dal divenire.
[di Gian Paolo Caprettini]
Cose vecchie prive di valore, oggi si da per scontato che costruire piramidi sociali non funziona perché le persone non sono sassi, ma figure in movimento e perciò non fanno piramidi stabili.
Oggi le società si organizzano come da conoscenze delle connessioni via sinapsi dei neuroni cerebrali, non più gerarchie, ma centri di specialità connessi tra loro e col resto della società, così come ogni neurone si collega con innumerevoli altri.