domenica 22 Dicembre 2024

Le emissioni industriali inquinano anche gli oceani: la storica sentenza dell’ONU

“Le emissioni antropiche di gas serra costituiscono una forma di inquinamento dell’ambiente marino”. È quanto ha stabilito il Tribunale internazionale del diritto del mare (Itlos), un organo indipendente delle Nazioni Unite, in un parere consultivo rilasciato il 21 maggio. Il parere non ha carattere vincolante, ma la decisione ha il potenziale per influenzare la giurisprudenza. In altre parole, la decisione potrà essere usata nei prossimi contenziosi climatici a qualsiasi livello per costringere i governi a migliorare le loro politiche contro la crisi climatica. Il parere arriva in risposta ad un gruppo di piccoli stati insulari particolarmente minacciati dal cambiamento climatico. L’aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera comporta che una maggiore quantità reagisca con l’acqua marina, determinando un aumento dell’acidità degli oceani con conseguenze sulla vita marina e sugli equilibri degli ecosistemi assolutamente non trascurabili.

Tale decisione scaturisce da un’udienza storica, andata in scena nel tribunale di Amburgo, in Germania, lo scorso settembre, quando le piccole nazioni insulari colpite in modo sproporzionato dalla crisi climatica hanno affrontato i Paesi che rilasciano più emissioni di gas serra. Le nazioni ricorrenti – tra cui Bahamas, Tuvalu, Vanuatu, Antigua e Barbuda – avevano chiesto all’Itlos di stabilire se le emissioni di anidride carbonica assorbite dall’ambiente marino potessero essere considerate inquinamento. All’interno del suo parere, il Tribunale internazionale del diritto del mare sostiene che i firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos) – la maggior parte dei Paesi, anche se all’appello manca una grande realtà come quella degli Stati Uniti d’America – hanno “l’obbligo specifico” di adottare “tutte le misure necessarie per prevenire, ridurre e controllare l’inquinamento marino derivante dalle emissioni di gas serra di origine antropica”, armonizzando le loro azioni politiche sul tema. Tali misure, scrive l’Itlos, “dovrebbero essere determinate in modo oggettivo, tenendo conto, tra l’altro, della migliore scienza disponibile e delle norme e degli standard internazionali pertinenti” che sono contenuti “nei trattati sui cambiamenti climatici come l’UNFCCC e l’Accordo di Parigi”. Si parla, in particolare, dell’obiettivo di “limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C” e di tenere fede alla “tempistica” necessaria per raggiungerlo.

L’Itlos aggiunge che, in vista dell’obiettivo, in capo agli Stati è previsto l’obbligo alla “dovuta diligenza”: uno standard “rigoroso”, dati “gli elevati rischi di danni gravi e irreversibili all’ambiente marino derivanti da tali emissioni”, che può però “variare a seconda delle capacità e delle risorse disponibili degli Stati”. Altro obbligo specifico per i Paesi, secondo l’Itlos, è quello di “cooperare, direttamente o attraverso le organizzazioni internazionali competenti, in modo continuativo, significativo e in buona fede” in vista della prevenzione, della riduzione e del controllo dell’inquinamento marino da emissioni antropiche di gas serra. Ora, almeno sulla carta, dovrebbe essere più facile obbligare giuridicamente gli Stati altamente emissivi ad agire contro i cambiamenti climatici.

I dati ci raccontano che a fare le spese delle politiche indiscriminate di sfruttamento delle risorse e di industrializzazione degli Stati sviluppati che hanno contribuito in maniera determinante alla crisi climatica sono, in particolare, i Paesi in via di sviluppo e i piccoli stati insulari, che subiscono maggiormente gli effetti di eventi meteorologici devastanti causati proprio dal cambiamento climatico senza averne le più grandi responsabilità. Basti pensare alle conseguenze che uragani di intensità sempre maggiore, come quello che si è abbattuto sulle Filippine all’inizio del 2022, hanno sui piccoli Stati insulari, che contribuiscono alle emissioni globali in misura di pochissimo superiore allo 0%. Dagli anni 2000, ben l’80% degli eventi climatici estremi è stato costituito da tempeste tropicali, il 90% delle quali si è verificato in Paesi in via di sviluppo e piccoli Stati insulari, che costituiscono lo 0,7% della popolazione mondiale.

Gli USA dominano la classifica dei Paesi con le maggiori emissioni a livello mondiale di CO2 a partire dalla Rivoluzione industriale, avendo prodotto il 25% delle emissioni totali sino ad oggi. Segue l’Europa, con un dato del 22% di emissioni cumulative complessive, delle quali l’intero continente africano è responsabile per appena il 3%. Solo nell’anno 2020 tutti i Paesi africani (escluso il Sudafrica) e buona parte dei Paesi dell’America Latina e del sud-est asiatico hanno contribuito in quantità inferiore allo 0,5% alle emissioni di CO2 complessive. In questo contesto si parla dunque di “debito climatico”, ovvero il debito che i Paesi sviluppati hanno contratto con quelli in via di sviluppo proprio in seguito alla sproporzione nel contributo alla crisi ambientale. Si tratta, nello specifico, di una misura volta a una distribuzione equa degli obblighi di ciascun Paese nella corsa per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dagli Accordi di Parigi per il 2030 (per il momento inattuabili, visto lo scarso impegno dei Paesi sviluppati). Che, purtroppo, non ha trovato fino a oggi applicazione concreta.

[di Stefano Baudino]

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