sabato 23 Novembre 2024

Il conflitto in Birmania si aggrava sempre più: migliaia di case incendiate in pochi giorni

Superati ormai i tre anni dal colpo di Stato militare che ha fatto scoppiare uno dei più sanguinosi conflitti del ventunesimo secolo, la guerra in Birmania non accenna a fermarsi e, anzi, pare aggravarsi sempre di più. Secondo fonti locali, infatti, lo scorso aprile nella città di Buthidaung, situata vicino al confine col Bangladesh, nello Stato del Rakhine, sarebbero state bruciate circa 5.000 abitazioni di individui di religione buddista e induista e sarebbero così state rase al suolo praticamente tutte le residenze della città. Un esponente del gruppo etnico ribelle del gruppo dell’Esercito dell’Arakan (AA), Khine Thu Kha, ha accusato la giunta golpista dell’azione di repressione. Di tutta risposta, il portavoce dell’esercito golpista Zaw Min Tun avrebbe respinto le accuse, negando il coinvolgimento della giunta nei fatti del mese passato, mentre l’attivista per il popolo Rohingya Nay San Lwin avrebbe accusato proprio l’AA, che ora presidia la città. Gli eventi del mese scorso, passati in sordina come spesso accade ai fatti riguardanti la Birmania, costituiscono l’ennesimo caso di escalation del conflitto interno al Paese, che coi suoi oltre 3 milioni di sfollati non pare volersi in alcun modo fermare.

La notizia riguardante le case che sarebbero state bruciate per opera della giunta militare birmana è trapelata solo qualche giorno fa, nel silenzio generale. La situazione è difficile da ricostruire a causa della scarsa reperibilità delle fonti e, non di rado, della loro stessa esistenza. Da quanto si ricava da indiscrezioni fornite ai media locali, le quasi 5.000 case sarebbero state bruciate tra l’11 e il 21 aprile, ma non è chiaro chi sia a tutti gli effetti stato. Le versioni fornite dalle controparti sono due: una accuserebbe l’AA, che subito dopo l’incendio si sarebbe impadronita del villaggio, mentre la seconda vedrebbe direttamente coinvolti gli uomini della giunta in coordinamento con delle milizie islamiche alleate. Secondo l’AA, l’accusa della giunta nei suoi confronti servirebbe a gettare benzina sul fuoco e alimentare i dissidi interni con le etnie dello Stato di Rakhine, così da destabilizzare il gruppo ribelle.

Comunque stiano le cose, le vicende dello scorso aprile sono un chiaro segnale che il conflitto interno alla Birmania non sta solo continuando, ma addirittura peggiorando. Secondo l’ultimo rapporto UNICEF condiviso dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari in data 23 maggio, a fine aprile gli sfollati interni al Paese erano oltre 3 milioni, di cui 200.000 solo il mese scorso. Lo Stato di Rakhine, inoltre, verserebbe in una condizione di scarsità d’acqua particolarmente precaria, e sarebbe stata sede di sempre più scontri armati e bombardamenti aerei; a Buthidaung in seguito ai fatti di metà aprile, oltre 15.000 persone sarebbero rimaste senza abitazione.

La Birmania vive in questa sorta di guerra civile dal 1 febbraio 2021, data in cui l’esercito ha arrestato Aung San Suu Kyi – leader del partito che aveva la maggioranza in Parlamento e capo de facto del Governo – assieme ad altri esponenti del partito, dichiarando lo stato di emergenza. Rapidamente, la giunta golpista ha bloccato l’accesso a Facebook, rendendo col tempo sempre più difficile la condivisione di dati e notizie e isolando il Paese. Col tempo le milizie etniche ribelli hanno iniziato a prendere sempre più terreno, fino ad arrivare allo scorso novembre quando sono riuscite ad avanzare in quasi tutto il Paese. Eppure, la guerra che sembrava essere arrivata a un punto di svolta non si è fermata.

[di Dario Lucisano]

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