La questione di fondo sta tutta nell’asticella. Più esattamente in quella misura di tolleranza con cui vengono percepiti gli eventi. Un esempio recente su tutti: le proteste dello scorso marzo nelle università per chiedere al governo italiano di stracciare gli accordi sulla ricerca sottoscritti dal Ministero degli Esteri con gli atenei israeliani (quelle ricerche potrebbero essere finalizzate a scopi bellici) ma anche per ribadire la solidarietà col popolo palestinese e chiedere il cessate il fuoco a Gaza, sono state presentate dalla stampa italiana come una specie di presa del Palazzo d’Inverno nella rivoluzione bolscevica del 1917. Proteste pacifiche, con qualche intrinseco elemento di radicalità (tipo, l’occupazione del rettorato dell’ateneo o i cortei spontanei all’interno o all’esterno dell’università stessa) raccontate quasi come assalti terroristici. Con l’inevitabile corredo in casi come questo, quale l’usurato allarme per «il ritorno degli anni di piombo». Così. Come fosse un riflesso condizionato. Come se non bastasse, in quella protesta che il 16 marzo venne caricata da polizia e carabinieri in assetto antisommossa, si contarono, secondo la questura, 27 feriti tra le forze dell’ordine. Significativi i titoli dei giornali del giorno dopo: «Scontri nelle università, chi sono i leader dell’ala dura: cinque anarchici storici e un estremista palestinese» (Corriere della Sera), «Scontri con la polizia: gli studenti assaltano un commissariato» (AdnKronos). «27 refertati: vogliamo i vostri medici», hanno risposto ironicamente gli studenti su uno striscione.
«Come possa essere stato possibile, ce lo chiediamo ancora – dice sconcertata Ilaria, giovane militante del Fronte della Gioventù comunista che, insieme a Cambiare Rotta e ad altre sigle studentesche, da mesi è in mobilitazione a fianco del popolo palestinese –, non avevamo neppure l’asta di una bandiera, niente di niente». Gli fa eco Luca, anche lui attivista del FdGC: «Abbiamo visto aumentare la repressione in questi ultimi anni in maniera sproporzionata: ragazzi denunciati per manifestazioni dove non era successo nulla o tantomeno violenze. È praticamente impossibile provocare 27 feriti tra le forze dell’ordine quando non hai alcuno strumento di offesa. Eravamo praticamente a mani nude». «Ma poi – aggiunge Ilaria – il corteo era praticamente finito. Eravamo passati alla Facoltà di Scienze politiche dopodiché molti se ne erano andati, era quasi tutto concluso. Tant’è che il ragazzo che poi è stato arrestato, stava tornando a casa, non l’hanno preso in mezzo al corteo».
All’interno dell’Università La Sapienza, tra i lunghi viali in una giornata particolarmente assolata (le aiuole “prese d’assalto” dagli studenti sdraiati sull’erba a chiacchierare) sono in corso da tempo i lavori per il restauro conservativo della statua della Minerva e quella parte dell’ateneo risulta divisa praticamente in due a causa dei cantieri. Proprio su questa piazza, il 17 febbraio del 1977, il movimento studentesco si rivoltò contro il segretario della CGIL, Luciano Lama, venuto in forze col suo nutrito servizio d’ordine sindacale per cercare di “addomesticare” quel movimento che da settimane portava avanti l’occupazione. Quel tentativo della CGIL finì male, con scontri (e feriti) tra studenti e sindacati e la fuga precipitosa dello stesso Lama insieme al servizio d’ordine che lo accompagnava. Gli studenti si chiusero dentro ai cancelli (la foto scattata da Tano D’Amico con gli studenti aggrappati a quei cancelli, coi fazzoletti davanti al viso e il giornale Lotta Continua in bella vista ne è ormai memoria condivisa). Il pomeriggio poi arrivarono i bulldozer della polizia che abbatterono i cancelli. E quindi ancora scontri, che si spinsero fino al vicino quartiere di San Lorenzo dove morì un poliziotto, Settimio Passamonti.
Era la stagione delle rivolte, come si direbbe un po’ retorici, eppure quell’evento, pur così “radicale”, fu soltanto uno dei tanti passaggi di quel periodo “rivoluzionario”. Cosa si direbbe oggi, quando per un corteo pacifico anche se con qualche forzatura (le forzature fanno parte di ogni conflitto sociale da che mondo è mondo e in ogni parte del mondo), si evoca il rischio terrorismo? E come mettono a confronto gli studenti di oggi con quell’epoca storica di 50 anni fa? «Mah, veramente non ce la fanno studiare – dicono quasi all’unisono i due studenti, uno dei due appena laureato in Storia – ed è un grave vulnus perché sono gli eventi più vicini a noi, alla nostra epoca storica e sarebbero importanti per capire quello che accade oggi».
In quegli anni esistevano giornali come Il Male, Frigidaire, Cannibale, tutta quella formidabile produzione editoriale che da quel movimento degli anni ’70 venne prodotta. «Sì, de Il Male ne ho sentito parlare, degli altri no», dice Luca. Renato Nicolini? L’Estate romana? No, sono troppo giovani e si può comprendere. Il sospetto però è che questo gap culturale e storico, favorisca alla fine proprio “l’innalzamento dell’asticella”, per cui le vicende non essendo messe a confronto con quello che storicamente accadde in Italia nei decenni precedenti, fa sì che a fronte di questo reset della memoria si possano poi criminalizzare a proprio piacimento le lotte e le proteste, non solo con la narrazione edulcorata degli “anni di piombo” ma rappresentandole come un unicum, un “tavolo da gioco” su cui giocare le proprie pedine senza regole. Oggi però questo è quello che accade nelle piazze. Almeno in Italia. Come andrà avanti ora la vostra protesta? «Noi non ci tiriamo indietro – dice Luca che spiega di provenire da una famiglia non certo benestante («mia madre guadagna 900 euro al mese, io stesso ho dovuto lavorare e studiare») –, tutto sommato, le prese di posizione di importanti università come quelle di Torino, Pisa, Bari contro gli accordi MAECI ci fanno ben sperare. Il periodo storico che stiamo vivendo, con la repressione e la criminalizzazione che stiamo vivendo è quello che è e lo sappiamo».
Come reagisce la maggioranza degli studenti qui a La Sapienza di fronte alle vostre proteste? «Alla fine nemmeno troppo male – dice Ilaria – abbiamo fatto una raccolta firme contro gli accordi con le università israeliane e almeno 2500 hanno aderito. La gran parte magari sta pure con noi, poi però non sempre è disposta a mettersi in gioco, a scendere in piazza».
[di Giancarlo Castelli]