Alle due di pomeriggio il sole che batte su Betlemme è asfissiante. Le strade sono vuote, poche macchine arrivano dal famoso checkpoint 300 e quasi nessuna va nel senso opposto. I rari passanti trovano un minimo di sollievo nell’ombra creata dall’enorme muro di cemento che segna la divisione arbitraria tra Israele e le terre palestinesi. Ma la desolazione che si percepisce non è risultato solo dei 35 gradi centigradi che picchiano sull’asfalto. Sulla strada che dal centro di Betlemme porta al checkpoint di uscita dalla città i negozi sono vuoti e Ahmed, che fa il panettiere, con sguardo sconsolato racconta che «non ci sono turisti da 9 mesi, gli alberghi sono tutti vuoti e moltissime persone non stanno lavorando». Betlemme è una città che si trova in Cisgiordania (West Bank), nei territori che secondo le risoluzioni internazionali dovrebbero appartenere allo Stato di Palestina, ma sono sotto occupazione israeliana dal lontano 1967. E Betlemme è anche una famosa meta turistica per i pellegrini cristiani che, almeno fino al 7 ottobre scorso, la invadevano quotidianamente per visitare la Chiesa della Natività, costruita dove secondo la tradizione cristiana Gesù sarebbe nato. Oggi i turisti non ci sono più, spaventati dalle immagini che mostrano il massacro che sta avvenendo a Gaza, e con loro è sparita anche la principale fonte di sostentamento per molti dei circa trentamila abitanti della città, circa il 20% dei quali è di religione cristiana. «Gli israeliani dicono che i Palestinesi sono terroristi e che creano problemi quindi se prima comunque ci rendevano i movimenti difficili, dopo il 7 ottobre non possiamo proprio più muoverci», dice Ahmed.
Come se non bastasse l’Autorità Nazionale Palestinese (cioè l’autogoverno guidato dal vecchio Abu Mazen e sostenuto dagli USA) è più di un anno che paga la metà degli stipendi agli impiegati pubblici: insegnati, dottori e funzionari. Prima dell’inizio del massacro, la popolazione palestinese era comunque costretta a stare alle regole dell’autorità israeliana, sia per andare in Israele sia per muoversi nella Cisgiordania. La West Bank è, dopo gli accordi di Oslo, un territorio diviso in 3 aree: area A, B e C. L’area C è sotto il completo controllo, militare e civile, di Israele e copre più del 60% del territorio; l’area B è a controllo condiviso, militare israeliano e civile palestinese; l’area A è sotto il completo controllo palestinese, ma comprende praticamente solo le città della West Bank. Questa divisione del territorio comporta che i movimenti dei cittadini palestinesi sono sempre assoggettati alle decisioni delle autorità israeliane che possono decidere di chiudere le strade, o le entrate alle città o mettere checkpoint provvisori, rendendo il movimento dei palestinesi incerto e complicato. Se nella teoria la Cisgiordania doveva essere la base di partenza del futuro Stato palestinese, oggi nella pratica è un territorio sotto occupazione militare dove è palese e netta la divisione tra cittadini israeliani e palestinesi, «quando le persone andavano a lavorare a Gerusalemme partivano alle 5 del mattino perché per noi palestinesi ci vogliono tra le 3 e le 5 ore per passare il checkpoint» racconta Ahemd.
Spostandosi all’ombra del mostro di cemento alto 20 metri e reso più “accettabile” dai disegni che lo ricoprono, si arriva a uno dei tre campi profughi di Betlemme, Aida camp. Nel 1948 ci fu quella che i palestinesi chiamano Nakba (catastrofe), ovvero la cacciata forzata e violenta della popolazione palestinese dalle loro case nei villaggi intorno a Gerusalemme e Hebron. Immediatamente ci fu l’intervento dell’ONU che fondò un’agenzia apposita l’UNRWA, che doveva essere il garante del diritto al ritorno della popolazione palestinese nelle loro terre. La prima cosa che la neonata agenzia delle Nazioni unite fa è costruire dei campi profughi, alla periferia delle città palestinesi in Cisgiordania. Oggi quelli che erano accampamenti di tende e che si pensava sarebbero stati temporanei, sono dei veri e propri quartieri con case, negozi e bar. A Betlemme oltre ad Aida camp, ci sono il campo di Dheisheh e quello di Azza. Quando si arriva al campo di Aida l’entrata è segnata da una grande porta sovrastata da una chiave, simbolo del diritto al ritorno della popolazione palestinese. Ad Aida oggi vivono più di 5.500 persone in un’area di meno di 0,071 Kmq. La zona è parzialmente circondata dal muro di separazione israeliano, da sette torri di guardia e si trova vicino a Har Homa e Gilo, due grandi insediamenti israeliani, considerati illegali dal diritto internazionale. Tra gli stretti vicoli ombreggiati di Aida incontriamo Ali, un uomo di 35 anni che per vivere fa la guida turistica.
Anche Ali dice che «dal 7 ottobre ho perso il lavoro e devo mantenere la mia famiglia, non so come fare». Dopo le presentazioni e qualche battuta riguardo al poco di italiano che Ali ha imparato dai turisti, propone di fare un giro con lui e andare a prendere un caffè a casa sua. Camminando per le strette stradine del campo si vedono decine di foto e murales che rappresentano quelli che vengono chiamati i martiri. Sono le persone uccise durante i raid che l’esercito israeliano compie regolarmente nei campi, anche 2, 3 volte alla settimana, «non ci sono dei motivi precisi e può succedere senza nessun preavviso che l’IDF entri nei campi» dice Ali. Ci fermiamo davanti alla foto di un giovane e Ali racconta che il ragazzo è stato ucciso a novembre da un colpo sparato da un cecchino, aveva 16 anni e la sua unica colpa è stata provare a vedere da dove venisse la colonna di mezzi dell’IDF (Israelian defence force). Di tutti i martiri di cui si vedono le foto la maggior parte sono ragazzi con meno di 18 anni, in molti casi anche più piccoli di 12 anni. Mentre andiamo verso casa per il caffè Ali racconta che «spesso i soldati israeliani vengono nei campi profughi per fare allenamento di conflitto. I giovani soldati, sotto la guida dei superiori, vengono qua per imparare a uccidere».
Entrati a casa Ali mi presenta sua moglie e i due figli, che non mancano di sorridere e scherzare. Dopo aver bevuto il caffè Ali racconta che ha deciso di staccare il televisore per evitare che i figli vedano tutto il giorno quello che succede a Gaza, «nemmeno io riesco più a guardare la televisione, mi fa troppo male» dice. «Anche prima del 7 ottobre la vita per i palestinesi che, come me, vivono nei campi profughi era molto difficile. Ma dopo quella data la situazione è precipitata ed è diventato tutto molto più pericoloso» racconta Ali. I numeri dimostrano l’aumentata pericolosità segnando un record di morti palestinesi per mano di militari o coloni israeliani in West Bank. Dal 7 ottobre sono più di 530 le morti palestinesi, secondo l’OCHA, in Cisgiordania, che rappresentano più del doppio delle uccisioni nello stesso periodo dell’anno 2022/23. Prima di congedarmi per tornare alla devastante calura, Ali, con un grande sorriso, ci tiene a dire che «i musulmani, i cristiani e gli ebrei hanno tutti lo stesso dio, vogliamo solo vivere in pace e sicurezza. Ma io non vedo un futuro di pace, ci rimane solo la speranza».
Betlemme è una città particolare anche per la convivenza delle comunità di palestinesi musulmani e cristiani. La piazza centrale dove si trova la chiesa della Natività lascia particolarmente sorpresi, soprattutto noi occidentali imbevuti della retorica della guerra di religione. Da un capo la chiesa e al capo opposto, a una distanza di un centinaio di metri, il minareto. I due templi che da sempre ci raccontano essere uno in contrasto con l’altro, qui convivono e dividono lo stesso spazio. «Prima di tutto io sono palestinese, non mi definisco cristiana palestinese, ma palestinese cristiana» dice Sabrina, fotografa palestinese di 35 anni. Lo scontro di culture che ci viene propinato da sempre è una «costruzione di Israele e del mondo occidentale» continua Sabrina, che conclude: «L’essere cristiana non influisce sulla mia identità palestinese e visione politica, la battaglia dei palestinesi musulmani e dei palestinesi cristiani è la stessa e il nemico è l’occupazione, non gli ebrei, ma i sionisti».
Proprio davanti alla chiesa della Natività incontro Abodallah, un giovane palestinese di 28 anni. Mi viene incontro e, dopo qualche chiacchiera di circostanza, mi chiede se volessi prendere un caffè, gli rispondo di sì e ci avviamo verso una terrazza vicina alla piazza. «Quello che succede a Gaza è terribile ma anche noi viviamo in una grande prigione, anche qua a Betlemme. Non riesco più a dormire e mangiare da giorni», mi racconta Abodallah indicandomi le colonie che si vedono dietro di lui. A Betlemme ogni volta che si arriva in un punto panoramico l’orizzonte è sempre interrotto dalle grandi colonie israeliane che circondano la città. Se ne contano 14, molte delle quali sono state costruite dopo gli accordi di Oslo. Colonie che le stesse Nazioni unite in diverse risoluzioni hanno dichiarato illegali. Ma nonostante tutto l’avanzata della colonizzazione non si è mai fermata e dopo il 7 ottobre si è rafforzata. Domenica scorsa il gabinetto di guerra ha discusso il rafforzamento delle colonie in tutta la West Bank, una mossa che arriva, a detta del portavoce del governo di Tel Aviv, in risposta ai paesi che hanno riconosciuto lo stato di Palestina.
«Non possiamo muoverci senza permesso, siamo spaventati di andare da qualunque parte perché ci sparano» continua Abodallah, che alla domanda su come siano cambiate le cose dopo il 7 ottobre risponde: «Abbiamo perso il lavoro e abbiamo più paura di prima, ma come giovane palestinese è cambiata la mia speranza, vedo che stiamo andando verso l’inferno non verso la pace». Il senso di abbandono che si percepisce dalle parole di Abodallah è totale: «tutto il mondo rimane immobile a guardarci morire, non fanno niente per noi, non importa se cristiani, musulmani o ebrei, per noi nessuno fa nulla» e ci tiene a precisare che «non sono un ragazzo arabo, io sono palestinese perché anche i paesi arabi non fanno nulla per fermare questa guerra. Guardano e basta».
Prima che riesca a convincerlo a venire a mangiare con me, una volta seduti non mangerà nulla, con occhi gonfi mi dice: «Noi palestinesi non valiamo niente, siamo niente: è tremendamente facile perdere la vita qui. Troppo facile», ma con una forza d’animo incredibile riesce ad abbozzare un sorriso e guardandomi dritto negli occhi conclude dicendo che «abbiamo bisogno di pace, abbiamo bisogno di poter dormire, di poter lavorare. Vogliamo una vita come quella di chiunque altro nel mondo, non ci serve nulla di più. Non ne possiamo più, non mi interessa la terra santa mi interessa vivere in pace». Quando cala la sera il clima si fa più mite e una leggera brezza inizia a rinfrescare l’aria, la vita procede come se niente fosse, come se tutto fosse normale, ma come mi ha detto Ahmed con un grande sorriso: «Noi speriamo che ci sarà pace anche per noi, cosa altro possiamo fare, sorridiamo e speriamo».
[di Filippo Zingone]