La transizione energetica globale ha aumentato la domanda di minerali necessari per la produzione di batterie, pannelli solari e altre tecnologie per le energie rinnovabili. L’impatto di questa corsa alle nuove risorse è ancora ignoto, ma in alcuni casi sono già emerse criticità non trascurabili. In un nuovo studio pubblicato su Energy Research & Social Science e focalizzato sull’Australia, alcuni ricercatori hanno scoperto che il 57,8% dei progetti minerari per l’energia pulita si trova all’interno di terre indigene formalmente riconosciute. La percentuale sale al 79,2% se si includono le terre soggette a rivendicazioni di titolo nativo che non sono ancora state determinate. Storicamente, le Prime Nazioni australiane non hanno ricevuto un compenso equo o la condivisione dei benefici quando gli investitori hanno trovato risorse nei loro territori. Per evitare gli errori del passato, pertanto, gli autori del documento sostengono che le nuove politiche minerarie debbano considerare i diritti e gli interessi delle popolazioni indigene durante l’intero ciclo di vita di un progetto.
Ad oggi, sottolinea lo studio, le popolazioni indigene non hanno ancora potuto beneficiare in maniera equa ed adeguata della ricchezza generata dall’estrazione di minerali dalle riserve australiane, anche quando queste si trovano nelle loro terre. La situazione è aggravata dal fatto che non eistono ancora politiche adeguate per garantire a queste popolazioni parità di diritti. «Le popolazioni delle Prime Nazioni in Australia sono state ampiamente ignorate nella spinta accelerata del governo federale per l’esplorazione e lo sviluppo dei minerali critici» ha dichiarato Chris Croker, co-presidente del First Nations Clean Energy Network (la Rete delle Prime Nazioni per l’Energia Pulita). La Strategia per i Minerali Critici, approvata recentemente dal governo australiano per il periodo 2023-2030, dichiara infatti di voler stabilire «partenariati genuini» con le popolazioni delle Prime Nazioni, al fine di «condividere i benefici» dell’estrazione e della transizione, ma senza fornire dettagli concreti in merito alle modalità con cui ciò dovrebbe realizzarsi. Dei milioni di dollari stanziati per sviluppare progetti estrattivi, non vi è alcuna risorsa governativa che sia stata esplicitamente destinata a sostenere la partecipazione indigena. Il tutto a fronte del fatto che, se è in parte vero che il settore dell’estrazione mineraria può comportare opportunità lavorative e di arricchimento, è altrettanto vero che il suo sviluppo indiscriminato può causare ingenti danni ambientali e sociali.
Affrontare la problematica nell’ottica di un’equa distribuzione della ricchezza e delle risorse è fondamentale, se si considera che, secondo le prospettive, la domanda di minerali quali grafite, litio e cobalto potrebbe aumentare fino al 500% entro il 2050, secondo le proiezioni del Gruppo della Banca Mondiale. Si tratta di una questione che non riguarda solamente l’Australia, ma il mondo intero: secondo alcuni studi, il 54% delle riserve e delle risorse mondiali necessarie alla transizione energetica (in particolare litio, vanadio, rame, zinco e argento) si trova in territori di popolazioni native o nelle immediate prossimità. Di queste, il 29% si trova in territori in cui il controllo indigeno è riconosciuto a tutti gli effetti. In questo contesto, è stato calcolato che, a livello globale, le infrastrutture per le energie rinnovabili minacciano il 42% delle terre indigene. Senza adeguate politiche sociali, insomma, la transizione energetica si riconfermerà solamente come un modo di riproporre le stesse dinamiche di sfruttamento di sempre.
[di Valeria Casolaro]