Lo scorso 28 giugno, all’istituto comprensivo Pietro Vanni di Viterbo è stato dato il via libera all’unanimità a un progetto di raccolta fondi per la risistemazione della struttura, all’interno del quale si prevede l’intitolazione delle aule a quelle aziende che si faranno carico dei costi dei lavori. L’iniziativa nasce, come è facile immaginare, dall’impellente necessità per l’istituto di trovare strade alternative rispetto all’utilizzo di fondi pubblici sempre più esigui, ma pone sul piatto importanti riflessioni sulla direzione intrapresa ormai da tempo dalla scuola italiana. Il progetto ha infatti fatto storcere molti nasi al Pietro Vanni, dove alcuni docenti sono apparsi scettici di fronte a un’iniziativa che potrebbe costituire un precedente di rilievo nella tendenza all’“aziendalizzazione” dell’universo della (sempre meno) pubblica istruzione.
La riqualificazione delle scuole del primo ciclo all’istituto comprensivo di Viterbo dovrebbe essere a carico del Comune laziale, la cui giunta si trova però al momento a dover fronteggiare altro tipo di urgenze a livello economico. Questa delicata situazione ha indotto la scuola a volgere lo sguardo altrove per incamerare i fondi necessari alle operazioni, sapendo però di dover pagare lo scotto di tale scelta. Il progetto che ha ottenuto il semaforo verde da parte del consiglio d’istituto produrrà infatti uno scenario in cui luoghi pubblici di formazione e apprendimento si trasformeranno, di fatto, in “spazi pubblicitari”, offrendo margine di manovra alla promozione di interessi privati in uno dei pochi mondi che, almeno un tempo, aveva le carte in regola per esserne immune. La questione è, ovviamente, collegata in maniera diretta a una problematica sistemica: quella di un patrimonio scolastico che invecchia – delle 40.133 strutture censite nel nostro Paese, quasi la metà sono state costruite prima del 1976 – senza essere opportunamente conservato o rinnovato, mancando a tal fine adeguate risorse finanziarie. Non è infatti un caso che il patrimonio edilizio scolastico, solo tra settembre 2022 e novembre 2023, sia stato protagonista di ben 85 crolli. Come ha spiegato la onlus Cittadinanzattiva, che ha effettuato il computo, «le cause sono in gran parte da ravvisare nella vetustà degli edifici e dei materiali con cui sono stati costruiti, nell’assenza o carenza di manutenzione, nella riduzione degli investimenti relativi a indagini e relativi interventi su controsoffitti, solai, tetti, e nella mancanza di tempestività».
Più in generale, che i luoghi per eccellenza della cultura libera e indipendente si stiano progressivamente trasformando in una fucina sterile al servizio delle multinazionali e dello stato delle cose è un aspetto assodato ormai da anni. Basti pensare al fatto che, con la riforma denominata “Buona Scuola” del 2015, voluta dall’allora premier Matteo Renzi, si è verificato – in continuità con le riforme Moratti e Gelmini – il consolidamento dell’alternanza scuola–lavoro, che rappresenta uno dei simboli più eloquenti dello stato in cui versa attualmente la scuola italiana. Nello specifico, infatti, si è deciso che le scuole superiori debbano sacrificare centinaia di ore di apprendimento di quello che ormai viene considerato il “sapere inutile” – matematica, latino, filosofia e così via -, lasciando spazio a esperienze lavorative. Spesso, peraltro, in luoghi di lavoro incoerenti col proprio percorso di studi (o, come hanno dimostrato numerosi casi di cronaca, addirittura pericolosi). Tra i nuclei della riforma vi è poi quello dell’autonomia scolastica, criticata da più parti per avere portato gli istituti a fare a gara per “accaparrarsi” fondi privati, creando di fatto scuole di serie A e di serie B in cui gli studenti – secondo i più tradizionali criteri aziendali – sono ridotti a clienti da attirare anche attraverso operazioni di marketing. Tutti aspetti funzionali agli interessi delle multinazionali e del libero mercato, su cui non è stata fatta alcuna retromarcia.
[di Stefano Baudino]