Come ogni anno, puntuale come il rintocco di una campana, gli esami di maturità hanno dato vita a infinite polemiche. Ormai è uno sport nazionale fare di questo rito di passaggio un momento di contestazione. Merita però un approfondimento la critica mossa dal professor Claudio Giunta, che sul Foglio è stato autore di un articolo dal titolo volutamente provocatorio: «Abolire la maturità? No, teniamoci l’esame di Stato e aboliamo Ungaretti!» Ungaretti fa male ai ragazzi, li rende depressi, dunque tanto vale abolirlo!
Il casus belli è stato innescato dalla poesia scelta come traccia per la prima prova scritta: Pellegrinaggio. Ungaretti la scrisse nel 1916 durante la sua esperienza in trincea. In agguato «in queste budella di macerie, ore e ore ho strascicato la mia carcassa usata dal fango», scrive il poeta che s’interroga sulla guerra e i suoi perché. Riflessioni che se potevano sembrare anacronistiche negli anni passati, oggi all’alba di un nuovo conflitto mondiale, meriterebbero di non essere liquidate tanto frettolosamente.
Ma Ungaretti è noioso! Tocca temi troppo difficili, troppo dolorosi per i ragazzi! Perché costringerli a queste dolenti riflessioni, se fuori fa caldo e c’è il sole, si domanda il professor Giunta. L’idea alla base di queste affermazioni è che i ragazzi siano incapaci di apprezzare un testo dal contenuto profondo e luttuoso. Certo, Ungaretti è il cantore del tempo che fugge e delle mutevoli stagioni, dell’attesa di un bagliore che non arriva e se arriva è simile a un lampo che acceca. Parla di ferite che fanno fatica a rimarginarsi, «come si può ch’io regga a tanta notte» scrive, perché sì siamo uomini, non macchine, e ogni urto lascia addosso una cicatrice. Andrebbe letto quando si cerca l’eco delle proprie inquietudini nei versi di un poeta, inquietudini che i ragazzi conoscono bene dato che l’adolescenza è l’età per eccellenza delle grandi domande.
Ma la critica del professor Giunta non investe soltanto Ungaretti. Sostiene che sarebbe preferibile abolire tutta quella deprimente, e qui cito testualmente, «letteratura mortuaria». «Questa nota mortuaria – in un momento topico come l’Esame di Stato – rischia di innescare nei cervelli degli studenti brutte reazioni pavloviane: finiranno per pensare che la letteratura si occupa della morte o dei morenti, mentre fuori dalla finestra splende il sole di giugno».
Insomma far analizzare ai ragazzi poesie che parlano della morte li porta ad associare la letteratura con la morte stessa e il sottinteso è che ciò alla fine li deprima. Peccato che la letteratura, tutta la letteratura, è un dialogo con la morte. Non c’è domanda più impellente, più urgente che si ponga. Dal confronto con la morte nascono le pagine più belle di tutta la letteratura mondiale. Io adesso potrei citare romanzi come La morte di Ivan Illich o Gli ultimi giorni di un condannato a morte di Hugo, potrei citare Dostoevskij, Dante, Tolstoj dove la ricerca di Dio, la morte e il desiderio d’immortalità sono un tutt’uno.
Ma anche nei romanzi che apparentemente celebrano la vita, che mettono in scena drammi borghesi, che sembrano estranei alle grandi domandi esistenziali, la morte è sempre lì, in agguato: è ciò che insidia la felicità terrena, ciò che mette un limite e un freno alle ambizioni e ai sogni umani, è lo sfondo su cui s’innesta ogni contrasto. La consapevolezza della mortalità si trasforma in desiderio di azioni eroiche nel Don Chisciotte, diventa ossessione e devozione della stirpe nei Buddenbrook, unica forma d’immortalità e ancora contro la vacuità delle tenebre eterne; è la cornice che alimenta i racconti boccacceschi che celebrano l’amore e il divertissement per sfuggire al dramma della peste. La morte è nello slancio verso quell’immensità e quei «sovraumani spazi e interminati silenzi» dell’Infinito; è nell’invocazione che il pastore errante di Leopardi rivolge alla luna quando si domanda «ove tende questo mio breve vagar?». La morte diventa tragedia in Shakespeare e in Eschilo quando chiede a gran voce di essere vendicata; è palcoscenico e terreno di scontro quando ci si interroga sulla sepoltura dai dare ai defunti come nell’Antigone.
La morte è l’eterna costante, il motore di ogni azione. Fare letteratura significa dialogare con la morte, ciò che cambia è il modo in cui un artista rappresenta la morte, quali sfumature ne indaga. Ma il dialogo, il confronto con la morte non è soltanto una roba da letterati. Non c’è uomo, donna o bambino che non conosca la morte. Il confronto è obbligato. Quando perdiamo un amico, un conoscente, un familiare, quando affrontiamo una malattia i nostri pensieri non saranno diversi da quelli che vengono in mente ad Amleto mentre contempla il teschio di Yorick. Che tu sia un principe danese o un uomo del XXI secolo non potrai fare a meno di chiederti: «Cosa c’è dopo la morte? Per cosa vale la pena vivere? Per cosa vogliamo vivere?»
Queste domande non trovano più posto nella nostra società dove la morte è il grande rimosso collettivo. Se nei media e nei prodotti cinematografici la morte è spettacolarizzata, nella vita quotidiana viene nascosta. Con la rimozione della morte dal tessuto collettivo, le emozioni associate ed essa prendono il nome di patologia, malessere, depressione. La tristezza, il lutto, la malinconia, l’angoscia non vanno d’accordo con il mito dell’eterna giovinezza e della felicità a tutti i costi, miti che vanno ad alimentare l’industria farmaceutica, cosmetica e qualsiasi altro commercio. Oggi la felicità non è un mito né uno stile di vita né un dovere sociale ma è un’industria. Un business. Un mercato miliardario che vende di tutto, dagli integratori agli antidepressivi ai manuali di self-help, un mercato che si autoalimenta costruendo da sé i suoi stessi miti.
Ecco perché allora in un’epoca che ha fatto della felicità un mantra, dell’essere energici e sorridenti un dovere sociale, perché un lavoratore per produrre tanto deve essere innanzitutto efficiente e un consumatore per generare profitto deve illudersi di potersi comprare la felicità, ecco in una simile epoca forse sarebbe opportuno tornare a leggere Ungaretti e tutti quegli altri poeti e scrittori «mortuari» che tanto si critica.
[di Guendalina Middei, in arte ”Professor X”]
Analisi importante e opportuna. Gia negli anni 70 Philippe Aries nella “Storia della morte in Occidente” aveva denunciato la soppressione della morte nella vita quotidiana. In un aneddoto racconta la solitudine di una donna il cui il marito era morto. Essendo stata abbandonata da tutti gli amici, un giorno invia una lettera a tutti i suoi conoscenti nella quale li prega di telefonarle e riprendere il contatto promettendo “non parlero’ della morte di mio marito”: aveva capito che la gente la evitava per non doversi confrontare con la presenza della morte. Del resto attualmente se si chiede di una persona (defunta) si risponde che quella persona “non c’e’ piu'”, oppure e’ “scomparsa” come nella canzone di Zaza.
Il prof Giunta…Sarà bene rinfrescargli la memoria perché anche lui, come tutti noi, sta come d’autunno sugli alberi le foglie.
Se il problema è il sole di giugno, personalmente proporrei di fare gli esami a settembre, anche se già ad oggi con il problema climatico bisognerebbe trovare un’altra soluzione. Il genere umano dovrebbe star bene e realizzarsi anche se aprendo la finestra si trovasse di fronte una giornata uggiosa.
Grazie. Condivido totalmente.
La commercializzazione della non-morte… perchè bisogna morire come vogliono “loro” (il sistema economico).
Bianca Bonavita: NUDA MORTE O DEL LIBERO MORIRE, Nautilus-autoproduzioni.
Il Foglio è un giornale di morti
Ci si poteva aspettare qualcosa di meglio da uno del foglio? Invece lo ringrazio perché mi ha fatto scoprire Ungaretti. Quante volte veniamo “usati” da qualcosa.. io che soffro d’insonnia mi chiedo spesso: “come si può ch’io regga a tanta notte.. un grande, Ungaretti, solo lui può trasformare una trincea in budelle..
La letteratura non è mortuaria, colora la vita di brillantezza, rende la realtà di luce vivida.