mercoledì 25 Dicembre 2024

“L’aurora boreale si trasforma in alba”, una poesia di Jón Kalman Stefánsson (2021)

Le tenebre hanno infilato
la città nel loro guanto
il sole sommerso nel silenzio rosso,
guardo fuori e sussurro, non
mi abbandonare, poi mi addormento
in mondi altri

Appena sveglio guardo fuori di nuovo
nella speranza di essere stato esaudito
ma la luce è talmente arcana che nessuno sa
cosa si leverà dal profondo,
se si leverà qualcosa, guardo
fuori e scorgo i monti sotto il cielo mattutino
quasi rosa oltre la baia del Faxaflói

Il Faxaflói che forse è ampio
quanto la vita
o quella che chiamiamo vita
senza riflettere a fondo sul
suo significato –
eppure spero che la vita sia
il legame che tiene insieme gli universi
il pulsante che fa scattare
il verde del semaforo pedonale
perché i tre bimbi attraversino la strada con i loro zaini
e il futuro

(© 2023, Iperborea S.r.l. Milano, trad. di Silvia Cosimini)

«Tutto può avvenire», notava August Strindberg presentando Il sogno, una sua opera teatrale (1901). È vero, anche la poesia come il dramma mescola esperienza e ricordo, cronaca e sogno,  in un delicato e imprevedibile, paradossale e incantato  dramma verbale, catturando una pittura di istanti che si fonde e si alterna con ragionamenti assoluti. Ma la poesia prima di tutto è sguardo, intercetta istanti che poi rielabora come se li dovesse raccontare ma senza una logica, confidando in uno speciale disordine che il lettore capirà. Non subito, ma alla fine capirà. La poesia infatti non dimostra nulla, rinvia a un prima e a un oltre che si alternano, a un qui davanti e a un chissà dove. 

Ha scritto un altro poeta islandese, Gyrdir Elíasson: «se si guarda fuori/ dalla finestra di cucina/ al terzo piano si vede la Skardsheidi striata/ di fiocchi di neve e oltre/ questa strada/ la vecchia nave che solca/ un prato che si fa verde». Nel realismo surreale il tempo per lui è come «un boomerang perduto» capace di tornare vincendo la lontananza.

Sta dunque alla finestra il poeta, una finestra romantica, se «tutto il giorno sono stata sola/ ho guardato la nebbia scendere/ rivestire di grigio le colline/ distendersi lungo la vallata» (così Emily Brönte, 1841); una finestra quasi cinematografica se invece l’occhio-camera del poeta trasforma il naturalismo in sogno, se dà una veste senza tempo al trascorrere dello sguardo,  trasfigurando la panoramica, parziale, in parole.

La finestra della cucina viene raffigurata nel romanzo-viaggio di Stefánsson, Grande come l’universo (2015):  lo spettacolo naturale della palla di fuoco che prende forma oltre i monti lontani (p. 9), «penetra dalla finestra della cucina dove Margrét sta guardando fuori mentre allatta Jakob al seno sinistro» (p. 374).

Le parole si formano nella naturalezza quotidiana, nel protagonismo di una natura che avvicenda luce e ombra, immensità e piccoli spazi privati rendendo ciascuno ospite di attimi, di scorci, di innesti metafisici nella continuità dei fatti di sempre.  Il nostro poeta delle piccole cose, Giovanni Pascoli, oltre un secolo fa cantava così il suo scorgere il mare lontano: «M’affaccio alla finestra, e vedo il mare:/ vanno le stelle, tremolano l’onde./ Vedo stelle passare, onde passare:/ un guizzo chiama, un palpito risponde». Lo sapeva però Fernando Pessoa che la finestra inganna, illude: «Non basta aprire la finestra/ per vedere la campagna e il fiume/…Bisogna anche non avere nessuna filosofia/ Con la filosofia non vi sono alberi: vi sono solo idee».

Ora, invece degli alberi ci sono bambini che attraversano la strada e il semaforo che diventa un’ idea: quella che gli universi immensi sono tenuti insieme da chissà che cosa ma intanto è importante, qui davanti, che il verde scatti e i tre piccoli continuino il loro futuro. Il poeta-regista ha appena detto “motore” e le figure, i suoni e le luci prendono forma, prendono vita, alleandosi alle parole di un copione che si sviluppa sotto un «cielo mattutino quasi rosa».

[di Gian Paolo Caprettini]

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