Sono passati vent’anni da quando Tiziano Terzani, circondato dall’amore di sua moglie, Angela Staude, e dei suoi figli, Folco e Saskia, immerso nella natura della valle dell’Orsigna ha «lasciato il corpo», come amava dire. Fiorentino, nato nel 1938 da una famiglia operaia, ha fin da subito mostrato uno spiccato interesse verso lo studio; difatti con ottimi risultati e grandi sacrifici uscì con il massimo dei voti dal Liceo Classico e ottenne, per merito, la borsa di studio in Giurisprudenza dalla Scuola Normale di Pisa. Disinteressato alla carriera d’avvocato, venne assunto a Ivrea dall’Olivetti, che gli diede l’occasione di mettersi in marcia e soddisfare il bisogno di evasione che lo contraddistinse. Fu proprio grazie all’esperienza in azienda che, dopo essere stato in Sudafrica, scrisse i suoi primi reportage, per la rivista L’Astrolabio, fondata da Ferruccio Parri. Fu allora che il giornalismo si insediò nella sua vita.
La necessità di conoscere da vicino anche ciò che più detestava, lo portò a vincere un’altra borsa di studio alla prestigiosa Columbia University di New York. Qui si avvicinò alla politica e alla guerra, seguì l’esplosione delle lotte sociali e le proteste contro la guerra in Vietnam. Ma fu alla Stanford University di Los Angeles che approfondì quella che diverrà la sua passione e la sua ragione di vita: la lingua e la cultura cinese.
Tornato in Italia, Tiziano aveva chiaro che il suo lavoro doveva portarlo in Asia. Dopo aver girato le redazioni di mezza Europa, a realizzare il suo sogno fu il settimanale tedesco Der Spiegel, che lo invierà come corrispondente e per il quale lavorerà per trent’anni, vivendo tra Singapore, il Vietnam, la Cambogia, la Cina, il Giappone, la Thailandia e infine l’India.
Terzani ha espresso pienamente la necessità di fare un giornalismo «diverso», attento al dettaglio e rigorosamente ossessionato dalla realtà dei fatti; ha dimostrato il bisogno per un giornalista di rifiutare l’obiettività del giornalismo anglosassone, calandosi nella Storia con tutte le scarpe, lasciandosi emozionare dal racconto e finendo per commuoversi davanti all’ingresso dei carri armati vietcong a Saigon, dove lui fu uno dei pochi giornalisti rimasti per raccontare la fine di quel conflitto.
A muoverlo fu spesso l’obbligo morale di conoscere anche «l’altro», ciò che nella stampa occidentale veniva generalmente definito come «nemico» e questa fu una delle peculiarità principali della sua missione; fu tra i primi a passare le rive del Mekong ed entrare nei villaggi per conoscere i vietcong; si mimetizzò per avvicinarsi all’antica cultura cinese schiacciata dalla censura del Partito Comunista; partì alla volta dell’Unione Sovietica per osservare da vicino i risultati immediati del crollo comunista e l’origine del fondamentalismo islamico e, dopo l’11 settembre, quando gli Stati Uniti, spesso con l’aiuto di firme autorevoli, proclamavano la necessità di esportare la «civiltà», Terzani, ormai cessata l’attività di giornalista, si perse tra i deserti dell’Afghanistan e le scuole coraniche del Pakistan per conoscere quei talebani disumanizzati dal racconto della stampa occidentale.
Tiziano Terzani non dimostrò solo la curiosità di andare a vedere la Storia da vicino, ma ebbe il coraggio di correggersi, spesso con delusione, su quelle ideologie che avevano fatto sognare la sua generazione. Sinceramente felice per la vittoria degli oppressi vietnamiti contro la strapotenza statunitense, non poté far altro che ricredersi quando tornò in Vietnam e vide il seguito di quella storia. Da curioso ammiratore di Mao, non appena realizzò il suo sogno e arrivò nel 1980 nella Cina di Deng Xiaoping, dovette scontrarsi con tutt’altra realtà.
«Mi fu subito chiaro che la realtà era meno affascinante dei sogni. Andai a cercare quella speciale forma di socialismo che si diceva fosse stata costruita in Cina, ma non trovai altro che un esperimento fallito malamente» scrisse in La porta proibita. Iniziò così a raccontare gli aridi frutti della devastazione causata dalla rivoluzione maoista, la distruzione di ogni elemento dell’antica cultura imperiale e l’estrema povertà nella quale versava la cittadinanza cinese. Viaggiò in lungo e in largo, scappando dallo stretto controllo della polizia, inerpicandosi tra le valli del Tibet e immergendosi tra i deserti dello Xinjiang, non solo per scovare cosa restasse di quella Cina oramai perduta, ma soprattutto per scriverne. Questo lo costrinse, nel 1984, a un mese di rieducazione e all’espulsione dalla Repubblica Popolare per «crimini controrivoluzionari».
La curiosità di raccontare un’Asia diversa, lontana dalle guerre e dalla povertà, lo portò a Tokyo, nella quale visse cinque anni. Il Giappone, in piena esplosione capitalista, non gli permise di dimenticare la delusione cinese. La soffocante vita dei salaryman, l’obiettivo nazionale di vincere la guerra economica contro gli Stati Uniti e la difficoltà nell’entrare in contatto con una cultura troppo nascosta, scatenarono in lui una profonda depressione, che riuscì ad alleviare solo dieci anni dopo, attraverso l’esperienza di viaggio raccontata in Un indovino mi disse. Era il 1993 e Terzani, ricordatosi di una profezia ricevuta nel 1976 da un indovino a Hong Kong, che gli sconsigliava di volare durante tutto l’anno, colse l’opportunità di svolgere il suo mestiere lentamente, via terra, attraversando con ogni mezzo possibile l’intero continente asiatico, accostando al proprio lavoro un racconto, quasi antropologico, della divinazione.
Ormai stanco della professione, si trasferì in India nella speranza di incontrare un mondo lontano dai ritmi del consumismo, legato alla spiritualità e alla tradizione. L’ultima parte della sua vita venne sconquassata dalla diagnosi di un cancro all’intestino, ma anche in questo caso, Tiziano sfruttò l’occasione per rimettersi in viaggio, alternando le cure al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York alla scoperta della medicina tradizionale asiatica. Ormai in pensione e pronto ad intraprendere l’ultima parte della sua vita, Terzani non poté esimersi dallo schierarsi vigorosamente contro la guerra; all’indomani dell’attentato al World Trade Center, Longanesi pubblicò Lettere contro la guerra, una raccolta di lettere di Tiziano, dedicate a suo nipote Novalis, frutto del viaggio in Asia centrale e finalizzate a restituire uno sguardo umano sulla militanza islamica.
A vent’anni dalla sua morte, il suo lavoro ci porta ad una riflessione sullo stato di salute di questa professione. Forse il giornalismo d’oggi, perennemente informato, saturo di contenuti e breaking news, affollato per qualche giorno su una notizia, ha dimenticato la lezione di Tiziano. Dovremmo prenderci il tempo per approfondire, soffermandoci sui dettagli, riprendendo in mano il lascito di un maestro che passò la vita a «scrutare i fiori da un cavallo in corsa».
[di Armando Negro]
Tiziano Terzani, un uomo profondo, che amava ricercare la verità senza cadere nei condizionamenti altrui… Un uomo che ha sempre cercato di trasmettere il meglio di ogni essere umano nella sua peculiarità. Impossibile leggere i suoi libri senza esserne profondamente toccati e sicuramente migliorati. 🙏🏼
E’ una figura molto affascinante che il sistema informativo italiano ha provato subito a dimenticarlo, andrebbe fatto come con Gaber una fondazione per ricordare tutti i suoi lasciti e fare un anniversario degno della sua caratura
Terzani è stato un grande uomo. Il suo dolore ricordo è in grado di farci sentire migliori.
Grazie A. Negri. Certo Tiziano Terzani è importante per chi cerca e non si stanca di cercare…(al tempo di Herman Hesse, si chiamava “der Suchende”), per chi viaggia e non si stanca di viaggiare e per chi non si stanca di voler capire… e di capire anche il supposto nemico.
Tutto questo mettendoci la faccia ed ovviamente la “firma” come ci ricorda il saggio G.P. Caprettini. Grazie!
E… magari alla fine capirà che non c’è nemico, non c’è ricerca e non c’è viaggio…come dice (anche) la fisica di Bohm… ma queste sono altre storie.
Uno dei fattori che si è quasi perduto è quello della firma che caratterizza il pezzo, che lo fa pensare collegato a un viaggio, a testimonianze, a episodi particolari. La firma, cioè lo stile, l’impronta. L’anonimato oggi dilaga e così le fonti sono l’espressione di una verità totalitaria
perché si vergognano talmente tanto che solo i soliti propagandisti ci mettono il nome, il cazzuto cazzullo, concetto vecchio (che non è un discorso obsoleto ma uno che scrive sul corriere), il propagandista raneiri, la castelleti, detta harmony per i suoi pezzi leggeri, famosa per averci raccontato la triste storia di Ecaterina finita in un carcere russo insolentita da senzatetto allupati e putiniani