Difficile riuscire a descrivere con poche parole le Olimpiadi di quest’anno. Se volessimo azzardare un’analisi di chi siamo e di cosa siamo diventati, queste Olimpiadi sono state lo specchio del declino estetico e culturale dell’Occidente. A dare inizio a quelle che passeranno alla storia come le Olimpiadi più controverse di sempre è stata una cerimonia d’apertura, con le sue monumentali sfilate, i suoi sfarzosi giochi pirotecnici, le cento ballerine di can can e le danzatrici travestite da Maria Antonietta, che, come ha sintetizzato Crosetti, ha «messo in ombra gli atleti», ha anticipato quello che sarebbe stato lo spirito di questi giochi: l’eccesso. Eccesso di polemiche, eccesso di divisioni, eccesso in tutti i sensi, come ha dimostrato il caso Khelif-Carini, ma procediamo con ordine.
La cerimonia si è conclusa con una rappresentazione in chiave queer dell’Ultima Cena, il cui culmine è stato l’entrata in scena di un Dionisio servito su un tripudio di fiori a mo’ di pietanza e, chissà perché, dipinto di blu. Mentre mezzo mondo ha gridato allo scandalo, l’altra metà, dopo le polemiche scaturite, è stata impegnata a negare in modo sistematico qualsiasi riferimento alla celebre opera di Leonardo.
Mettendo da parte qualsiasi discorso sulla religione, l’inclusione, la morale e l’ironia, per me il problema di fondo non è di natura etica ma estetica. Ben più interessante, infatti, è analizzare la scelta artistica di Thomas Jolly, l’ideatore di questo tableau vivente, che ha voluto lanciare un messaggio d’inclusione mescolando elementi cristiani e pagani attraverso uno spirito dissacrante, che da Rabelais a Voltaire, passando per la celebre Colazione sull’erba di Manet, è squisitamente francese. A ciò si è aggiunto l’effetto conturbante esercitato dalle drag queen, scelte come modelle per la rappresentazione, e un certo istrionismo di fondo che nel mondo dello spettacolo è di casa.
Tutti questi elementi, che se presi singolarmente hanno il loro fascino, mescolati insieme alla rinfusa hanno dato vita a uno spettacolo che ha fatto storcere il naso di molti. C’è una parola ben precisa per descrivere questa rappresentazione: kitsch. Cos’è il kitsch? Il kitsch è quel cattivo gusto infarcito di banalità, trivialità e luoghi comuni che potremmo tentare di tradurre con la parola pacchiano. Le statuette di Lady Diana, i quadretti smielati di un’Italia «pizza e mandolino», la testa di Chiara Ferragni schiaffata sulla Venere di Botticelli sono kitsch. Per lo scrittore Milan Kundera, il kitsch è una concezione artistica e culturale alla base del declino dell’Occidente. I romanzi kitsch sono ridicoli, sono sentimentali, sono triviali, ti scodellano delle verità ovvie, «l’amicizia è un dono», «la vita è bella», «non bisogna mai arrendersi», ma siccome fanno appello ai nostri buoni sentimenti, ci riesce difficile pensarne male.
Ma, per tornare alla cerimonia d’apertura, chiunque abbia mosso obiezioni e sollevato dubbi sulla riuscita estetica dell’opera è stato bollato senza sé e senza ma di essere retrogrado, ignorante, reazionario. L’arte è passata così dall’essere l’esperienza critica per eccellenza a un qualcosa di monolitico, impossibile da contestare e da analizzare. E anche questo rientra nel kitsch, perché se in letteratura il kitsch è la fiera dell’ovvio ed esclude a priori complessità, sfumature, ambiguità, dividendo il mondo in «buoni» e in «cattivi», una rappresentazione artistica che contempla come uniche risposte possibili il «sì» e il «no», la lode incondizionata o il rifiuto netto, è il trionfo dell’estetica kitsch.
Subito dopo la polemica sull’Ultima Cena, scoppia il caso Bob Ballard, licenziato in tronco da Eurosport in seguito a un commento sessista sulle nuotatrici australiane durante la finale della staffetta 4×1000 stile libero: «sai come sono le donne, staranno in giro a darsi gli ultimi ritocchi al trucco». Il dibattito su Ballard è un altro esempio di kitsch. La polemica, infatti, ha subito assunto toni infuocati, polarizzandosi in una dicotomia buoni contro cattivi.
L’apice del cattivo gusto tuttavia è stato raggiunto con il caso Khelif-Carini. «Khelif,» scrive Marco Bellinazzo sul Sole 24 Ore, «all’inizio della vicenda è stata definita (da me per prima e me ne scuso) transessuale quando non lo è. La necessità di stare sul pezzo seguendo i trend spesso induce in errore i media, che invece devono lavorare per fornire sempre dati certi e oggettivi ai lettori».
La disinformazione è stato il primo, ma non certamente il più grave, elemento che ha accompagnato il caso Khelif fin dal suo esordio. Ha contribuito a diffondere tutta una serie di illazioni e di ipotesi su cui ancora ora è difficile fare chiarezza. In una Babele di opinioni politicizzate, pareri di esperti o presunti tali, è stato detto esattamente tutto e il contrario di tutto. Il caso Khelif ha messo in luce l’incapacità della stampa italiana di assolvere il suo compito primario: quello di informare.
Ma dietro questa vicenda si nasconde molto altro. Il caso Khelif solleva interrogativi etici, umanitari, bioetici, sportivi. Posto che l’atleta algerina soffra di quella particolarissima condizione che prende il nome di intersessualità, che sta a indicare persone che presentano fin dalla nascita caratteristiche sia femminili sia maschili, in quale categoria va inclusa? Da quale categoria va esclusa? In base a quali parametri è possibile classificare ciò che sfugge a una classificazione binaria uomo/donna? Come trovare un equilibrio tra equità e diritti?
Domande che nella loro complessità sono tragiche nel senso letterale della parola. Il tragico, infatti, per gli antichi greci stava a indicare una situazione senza un’apparente via d’uscita. «Cosa devo fare?» si domanda Oreste, stritolato tra il dover uccidere la madre per vendicare la morte del padre o il risparmiarla ed essere perseguitato dalle Erinni, le dee della vendetta. La politica, ovviamente, non ha né il desiderio né la volontà di fare sua la complessità del tragico. E in una società dominata dall’estetica del kitsch che anela ad avere risposte immediate, soluzioni immediate, una divisione immediata in giusto e sbagliato, il tragico in senso greco usa un linguaggio incomprensibile ed estraneo per le sue orecchie.
E ancora, se vogliamo approfondire ulteriormente la questione: come possiamo stabilire quanto il presunto vantaggio biologico di Khelif influisca rispetto ad altri vantaggi biologici innati come altezza, conformazione ossea o una particolare lunghezza del piede come nel caso del nuotatore Michael Phelps, l’olimpionico più decorato della storia? E dovremmo anche domandarci: abbiamo il diritto di farlo? Dopotutto non vi è in ogni essere umano una componente aleatoria, imprevedibile, indeterminabile che al di là di analisi chimiche, stime e percentuali ci rende ciò che siamo? In una disciplina sportiva cosa influisce maggiormente tra prestanza fisica, muscolatura, tecnica, allenamento? Per non parlare di qualità come resistenza, tenacia, sopportazione del dolore, perseveranza, qualità psichiche che sono anch’esse predeterminate dalla genetica o dall’ambiente. Se avessimo il coraggio di percorrere questa strada fino in fondo, saremmo costretti a rimettere in discussione il nostro concetto di equità, merito e giustizia, ritrovandoci impelagati in un ginepraio proprio di un romanzo di Dostoevskij, che segnerebbe la fine dello sport per come lo abbiamo concepito fino ad ora.
La sfida tragica sollevata del caso dell’atleta algerina è degenerata invece in una pantomima grottesca. Il corpo di Khelif è stato letteralmente cannibalizzato dalla stampa e della politica, che ne ha fatto ora un’icona del mondo transgender, ora un feticcio per combattere la così detta “teoria gender fluid”. In un proliferare incontrollato di fake news, vignette e orribili meme, l’anatomia intima di Khelif è diventata l’oggetto di ogni discussione, è stata analizzata e virtualmente palpata da ogni possibile angolazione. Il dibattito sulle questioni etiche e sulla discrepanza dei pareri emanati dal CIO e dall’IBA, il Comitato Olimpico e la Federazione Mondiale di Pugilato, è rimasto relegato sullo sfondo, mentre nei forum e sui social domina un’ossessione per i genitali di Khelif che avrebbe fatto impallidire Sigmund Freud. Rispetto nei confronti di un altro essere umano, umanità, senso della misura e del pudore sembrano aver abbandonato i nostri lidi.
Scartabellando e spulciando i commenti sui vari social, cartina di tornasole di come la gente percepisca il dibattito, mi è tornata alla mente una battuta pronunciata nel Trono di Spade, una popolarissima serie tv di questi ultimi tempi, che sintetizza alla perfezione il caso Khelif. Quando Lord Bealish consegna Sansa Stark a Lord Bolton per darla in sposa al figlio bastardo di Bolton, gli assicura che la ragazza è vergine. «Controlla pure, se vuoi», gli dice. Al che Lord Bolton gli risponde: «questo lo fa chi gestisce i bordelli». Ecco cos’è stata per molti l’Italia in questi ultimi giorni: un grande bordello a cielo aperto.
[di Guendalina Middei, in arte Professor X]
Piccola ma significativa precisazione sul finale: Petyr Baelish nella suddetta serie TV (e nelle “Cronache del ghiaccio e del fuoco” di George Martin, da cui essa è stata tratta) gestisce un bordello.
Tutto ciò è solo provincialismo e invidia! Dall’Indipendente mi aspettavo un articolo più “illuminato” !
Vorrei chiudere con una ironica considerazione di un mio amico: “Oggi mi sento donna , per cui esigero’ in palestra di potermi cambiare tra le donne”.
Troppo comodo mescolare il genere sessuale biologico con la forza, i piedi grossi, la statura, la miglioria genetica di un individuo rispetto l’altro: questo e’ il modo per “buttare in vacca” ogni discorso… e finire per diluire tutto in un malsano pentolone torbido di finta ipocrita accettazione del tutto.
Si deve invece restare sul punto: squadre femminili che gareggiano tra femmine, e maschili che gareggiano tra maschi: ogni altra differenza fa parte del pacchetto che costituisce la variabilita’ intraspecie degli individui e che quindi non e’ oggetto del discutere.
E’ quindi bene giocare a carte scoperte: se sei maschio lo devi dimostrare e dichiarare, se sei femmina pure; quindi gareggerai tra pari nella categoria che ti appartiene. Punto. Se sei altro chiedi la costituzione di una categoria che ti comprenda. Non c’e’ poi privacy sulla chiarezza del rispetto delle regole: forse che la Carini non ha dovuto fare esami su esami per l’antidoping, mentre del suo avversario non sappiamo ancora come biologicamente e’ fatto?
Il giornalista ha iniziato bene il suo articolo, ma l’ha finito male quando si e’ allineato sul politically correct per cui tutto deve essere accettato e inglobato…nel famoso torbido pentolone di cui dicevo prima sostenendo che siccome nessuno e’ uguale ad un altro allora tutto il diverso, di ogni genere e grado, va mescolato come le carte di un mazzo da gioco.
Prima ancora di vedere la firma avevo immaginato che l’articolo fosse di Guendalina di cui ormai riconosco lo stile. Detto questo , mi sono sentita onorata di essere stata tacciata di essere retrograda e fuori dal tempo perchè non ho apprezzato l’estetica dell’apertura dei giochi. Concordo sul fatto che queste olimpiadi rimarranno il simbolo della decadenza istrionica di questo occidente decerebrato. Ma rimarranno anche le Olimpiadi dell’antisportività sin dall’inizio per aver escluso dalle competizioni due soli paesi in base a questioni geopolitiche che mal si coniugano con lo spirito dello sport . Come se non bastasse per strane decisioni propagandistiche far immergere nelle acque inquinate della Senna gli atleti che non hanno potuto fare gli allenamenti pre gara quando non sono stati costretti al ricovero ospedaliero . E qui arriviamo ai compiti del CIO, già in tutto questo direi molto discutibili . Per arrivare poi al “caso Khelif ” , in cui la contrapposizione tra CIO e IBA,anch’essa non proprio di stampo sportivo, ha sicuramente giocato un ruolo che ha colpito principalmente le atlete. Comunque “il caso” è stato prevalentemente a targa Italia, visto che altre atlete hanno affrontato senza polemiche la Khelif. Personalmente penso che sia stata la propaganda ideologica e politica del governo ad aver coinvolto prima di tutto l’atleta italiana e l’altra con la diffamazione mediatica . Io non voglio addentrarmi in questioni di fenotipo e genotipo di cui si dovrebbe avere conoscenza per poterne parlare . Resta di fatto che o si decide che, per rarissimi casi di ermafroditismo, tutto deve diventare fluido sino a stabilire che non esistono più differenze di genere nello sport , direi piuttosto contro natura ed a scapito del genotipo più debole, oppure anche il CIO stabilisca canoni adeguati a salavaguardia degli atleti.
Viviamo in tempi oscuri…
Nessuno prende in considerazione la reazione della Carini? E’ una reazione oggettiva. E’ abituata a prendere pugni ma se dopo 46 secondi si ritira è perché ha capito che era troppa la differenza. Se si permettono situazioni del genere c’è qualcosa che non va
D’accordo su tutto tranne che sull’ultima parte: un fisico maschile ha un vantaggio troppo elevato rispetto a uno femminile specialmente in uno sport del genere, e la cosa è quantificabile, non si può paragonare alle differenze tra un fisico femminile e l’altro.
Per quanto riguarda il non rispetto della dignità di Khelif e la sua vittimizzazione, anche qui ho qualche dubbio, perché l’atleta in questione ha intrapreso quella strada consapevolmente, alla luce di tutto ciò che la cosa inevitabilmente comporta (e in effetti sta comportando).
Ottima analisi della decadenza occidentale.
Ottima analisi della decadenza occidentale.
Non concordo sul caso Khelif. Negli anni 60 del secolo scorso gli atleti venivano visitati (e denudati) dai medici sportivi quindi si sapeva…la VERITA’ che per me deve sempre stare al di sopra di tutto, anche della privacy!! Voi la classificate come donna ma secondo l’esame genetico fatto dall’IBA (cromosoma XY) non può essere donna tuttavia il padre l’ha registrata all’anagrafe come donna. La cosa più probabile è che sia un ermafrodita cioè una persona che per cause naturali alla nascita ha sia i genitali maschili che quelli femminili! Fosse così sarebbe ancor più diffiicile prendere una decisione in quanto con potenza muscolare e prestazioni probabilmente a metà strada tra donne e uomini (più forte delle donne più debole degli uomini). I paragoni con altre differenze corporee lasciano il tempo che trovano, tutte le federazioni hanno la cattgoria donne e la categoria uomini, altrimenti dovremmo togliere le categorie. Oggi è evidentemente quindi il trionfo della FALSITA’ negli anni 60 del secolo scorso invece ANCHE qui in Occidente prevaleva la VERITA’!!
Il ragionamento sul confronto dei possibili vantaggi biologici innati, non mi trova per niente ďaccordo. Seguendolo fino in fondo non resterebbe altro da fare che prevedere gare non suddivise per genere, quindi uomini, donne, transgender, intersex, ecc ecc tutti a gareggiare insieme. Il risultato sarebbe che la gran parte degli sport li praticherebbero solo i maschi, o almeno solo i maschi avrebbero possibilità di competere ai massimi livelli.
Complimenti.
Ottimo articolo, sono d’accordissimo con praticamente tutto. Partendo dal discorso sulla cerimonia inaugurale, anche per me il problema è più estetico che etico. È un discorso che mi ritrovo a fare spesso con membri della comunità LGBT riguardo i gay pride, il problema è che spesso non viene percepito così e anche se vuoi parlare di estetica, la gente ti affibia l’etichetta di bastonatore di diritti anche quando vorresti solo dire che, forse, si può combattere per giusti diritti individuali senza dover trasformare tutto ogni volta in una pacchiana baracconata.
Il problema, insomma, è il kitsch, non che sia una Ultima Cena blasfema (l’arte lo è sempre stato e sempre lo sarà!). Il problema è che tutto era esteticamente brutto, inutile e tagliato con l’accetta, senza alcuna profondità se non quella del mettere insieme un’accozzaglia di immagini che insieme avrebbero dovuto, nell’idea del direttore artistico, provocare. In realtà più che provocare, oggettivamente nel 2024 chi si sente ancora provocato da un Dioniso grassoccio che canta con dietro le drag queen probabilmente non esce di casa o non guarda un film da vent’anni, a me ha semplicemente fatto venire nostalgia per l’arte bella, per i canoni estetici, per un arte che sia davvero veicolo di un messaggio e non solo strumento estetico di un’ideologia. Forse, tra il brutalismo sovietico (o il razionalismo fascista, così siamo bipartisan) e l’estetica LGBT che ormai ha pervaso molti ambienti dell’arte e della cultura, non c’è tutta questa differenza a livello di utilizzo propagandistico dell’arte.
Nulla da dire sul resto, soprattutto il caso Khelif che è stato qualcosa di davvero grottesco e che ha dimostrato ancora una volta, se ce ne fosse il bisogno, come il giornalismo italiano sia più che alla frutta.