sabato 21 Dicembre 2024

Poche parole

Alla poesia bastano poche parole. Il senso viaggia come fiamme, come piccoli ardori oppure sa di musiche lontane oppure si impregna di passione.

Oggi, 10 agosto, anzi X agosto, è ovvio dare la parola a Giovanni Pascoli, e alla sua poesia che apparenta la rondine caduta al padre ucciso, ma dove dominano le stelle che pur restano stelle anche se cadono, e dove prevale il perdono, un perdono implicito ma potente.  Così nell’immaginario vorticoso e illuminato di quei versi di fine Ottocento, «io lo so perché tanto / di stelle arde e cade, perché sì gran pianto/ nel concavo cielo sfavilla». Se gli uomini «amarono più il male altrui che il proprio bene» – scrive così Pascoli nella prefazione, allora la poesia può essere catartica, rivoluzionaria e divina insieme perché sa che cosa sia la felicità vera.

«Guido, i’ vorrei che tu e Lippo ed io/ fossimo presi per incantamento/ e messi in un  vasel ch’ad ogni vento/ per mare andasse al voler vostro e mio;/… E monna Vanna e monna Lagia poi/ con quella ch’è sul numer de le trenta/… e quivi ragionar sempre d’amore,/ e ciascuna di lor fosse contenta…». Eccolo il Dante visionario che si incanta di un sogno con amici e amiche, su quella nave fantastica – mito arcaico straordinario che nel Medioevo ritorna con Mago Merlino, navicella che va senza remi e senza vela perché è la fantasia e l’amore e l’arte a muoverla.

Inevitabilmente si torna al secondo Ottocento, alle barche dipinte da Claude Monet o a Edouard Manet che lo ritrae (1874) mentre sta dipingendo sulla piccola barca in un gioco quasi di specchi tra i due. Bastano poche parole alla poesia, bastano poche pennellate alla pittura impressionista che fa lavorare la luce a scomporre le tinte, a rendere iridescente il soggetto. Nell’Ode trionfale Fernando Pessoa cantava che «tutto è vita, dai brillanti nelle vetrine/ fino alla notte ponte misterioso tra gli astri/ e l’antico mare solenne, che lava le coste… perché il presente è tutto il passato e tutto il futuro». Come dire allora «a maresia dos dias», «la marescenza dei giorni», l’essere mobile del tutto, il decrescere della marea come del tempo?

Scriveva Florbela Espanca, anche lei imprigionata nell’infinito della saudade portoghese, che «esser poeta.. è avere fame, è avere sete di Infinito!… E non saper neppure di desiderare».

E Patrizia Cavalli riprende ai nostri giorni,  a suo modo, in un splendido cinismo, la visione crepuscolare, simbolista del cielo che tutto contiene: «Ah l’avessi saputo/ che bastava un bacio per aprirmi le vie dell’universo:/ stelle e pianeti che si incrociano/ parlando, costellazioni intere/ che si intessono…».

Bastano poche parole alla poesia che di sé potrebbe dire quel che scrisse Leopardi della fragile foglia: «Vo pellegrina, e tutto l’altro ignoro./ Vo dove ogni altra cosa,/ dove naturalmente va la foglia di rosa,/ e la foglia di alloro».

La rosa e l’alloro, cioè l’amore e la gloria, nel flusso del mare del tempo che aveva ispirato le grandi forme della poesia e del mito, alla ricerca di una verità che contenesse immaginazione e trasfigurazione, come è avvenuto nella filosofia ai suoi albori.

[di Gian Paolo Caprettini]

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